[...] Una generazione può imparare molto da un'altra generazione; ma quel che è propriamente umano, nessuna generazione lo impara da quella che precede. Da questo punto di vista, ogni generazione ricomincia come se fosse la prima, nessuna ha mèta nuova al di là di quella di ogni altra generazione precedente né giunge al di là di quella, seppure quella generazione non ha tradito i propri compiti, se non ha ingannato se stessa. Ciò che io chiamo propriamente umano, è la passione, in cui ogni generazione comprende completamente l'altra e comprende se stessa. Così, per quanto riguarda l'amore, nessuna generazione insegna all'altra ad amare, nessuna generazione comincia ad un punto che non sia il principio, nessuna generazione ulteriore ha un compito più breve della precedente; e se non vuole contentarsi come le generazioni precedenti, dell'amore, ma vuole andare oltre, non dirà, con questo, altro che vane e malvagi parole [...][1].

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a parlare non è l'uomo, ma è il linguaggio stesso1.

  

Un saluto, dunque, a sua maestà

l’inconscio o la parola,

che al di là di tutto, malgrado che

si voglia vivere come se non ci fosse,

veglia su di noi più di quanto

noi vegliamo su di lui2.

 

  

Heidegger scrive che «è il linguaggio, lui solo, quello che propriamente parla. E il linguaggio è solitario. Sennonché solitario può essere soltanto colui che non è solo: vale a dire che non è separato, isolato, senza alcun rapporto»3.

 

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