Alberto Zino
Bene, secondo il nostro progetto questa è la lezione 14 del seminario di quest’anno, che riguarda la questione di un’incredibile cura per la clinica della psicanalisi[1]. È, come sapete, la seconda stagione di questo seminario, cui seguirà la terza il prossimo anno, ancora intorno agli stessi nodi. Sapete anche che oggi abbiamo cambiato il giorno, per consentire alle nostre gentilissime ospiti della Società Filosofica del Friuli di essere qui a riprendere uno dei temi centrali per noi attualmente; lo è anche per loro, per la loro elaborazione. Claudia Furlanetto e Monica Franceschin, probabilmente qualcuno di voi le ricorda dalla giornata di studio su Derrida lo scorso anno. Oltre a loro, vi presento davvero volentieri Beatrice Bonato e Eliana Villalta che lavorano da qualche anno con Claudia Furlanetto e non soltanto. In un certo senso questa di oggi è la terza puntata di questo incontro nato in occasione della giornata di studio su Derrida, poi proseguito lo scorso maggio a Udine quando loro mi hanno fatto un grande favore a invitarmi a presentare il loro libro, Le voci del corpo. Dopo oggi, sicuramente seguiranno altri nostri incontri.
Questo tentativo di costruire un cartello comune di lavoro, al quale abbiamo dato il nome di Diritto alla parola, dovrebbe riguardare non solo incontri reali tra noi, ma anche di più, scambi di materiali, articoli e rilanci sui nostri rispettivi siti e tutto il resto. Tenete quindi conto che anche stasera, come le due volte precedenti, tutto ciò che stiamo per fare sarà registrato e trascritto. Per l’ulteriore puntata da mettere agli atti del nostro cartello comune.
Lascio la parola a Claudia Furlanetto che ha preparato tanto materiale, mentre noi abbiamo già deciso d’interromperla, naturalmente quando lei meno se l’aspetta, senza alcun preavviso. Quando accadrà, sarà solo per cominciare a dibatterci a partire dal suo lavoro.
Claudia Furlanetto
Sono sempre molto emozionata quando vengo qui da voi, perché trovo un’accoglienza straordinaria. Grazie Alberto, grazie a voi, per quest’invito a parlarvi di un argomento sul quale mi sono imbattuta fin dall’inizio della mia formazione analitica con Giacomo Contri.
Prima di iniziare a parlarvi di imputabilità - ho intitolato questo intervento Imputabilità e amicizia del pensiero senza alibi - vorrei ricordare un altro amico che è mancato ieri, si chiama Luciano Bianchin e lo ricordo perché con lui più di quindici anni fa, a scuola, nella sala insegnanti di un istituto professionale di Pordenone, dove insegnavo, in un contesto che non aveva nulla a che fare con la psicanalisi e neanche con la filosofia, ho iniziato a parlare con lui di questo argomento. Luciano ha poi continuato ad occuparsene, per conto proprio, interessandosi al pensiero di Giacomo Contri, con grande serietà e sensibilità.
[Segue il testo dell’intervento di Claudia Furlanetto, nella versione scritta preparata per l'occasione e che qui viene proposta nella sua integrità.]
DIRITTO ALLA PAROLA
Imputabilità e amicizia del pensiero sans alibi
A Luciano
[L'analisi] non ha certo il compito di rendere impossibili le reazioni morbose, ma piuttosto quello di creare per l'Io del malato la libertà di optare per una soluzione o per l’altra. (S. Freud[2]). Il concetto di imputabilità, introdotto molto presto nel suo pensiero da Giacomo B. Contri[3], chiama subito in causa un certo rapporto tra psicanalisi e diritto, che è da sempre oggetto di approfondite analisi, tra le quali quella di Franck Chaumon, Jacques Lacan, la legge, il soggetto, il godimento[4]. Chaumon lamenta un uso improprio della psicanalisi da parte del diritto e viceversa. Prima di ricordare la critica di Chaumon, vorrei precisare che il concetto di imputabilità non ha nulla a che vedere con l'idea penale di imputazione, intesa come imputare un reato o una colpa. Così vale anche per il concetto di giudizio: purtroppo è invalso l'uso di considerare il giudizio, come atto giudicante negativo, a partire dal concetto di giudizio penale o di giudizio pedagogico (perlopiù negativo). Tanto il concetto di imputazione quanto quello di giudizio devono essere riabilitati secondo un'altra prospettiva, che è innanzitutto premiale. La psicanalisi – afferma Contri – è la difesa o la costituzione di un pensiero come primo diritto, capace di istituire rapporti, legami secondo logiche o leggi che il soggetto può imputarsi. Il diritto statuale può essere chiamato in causa come aiuto, in funzione ausiliaria ma non sostitutiva di questo primo diritto costituente, che è il pensiero di ciascuno. Imputabilità in psicanalisi è il nome di un lavoro soggettivo che riporta il soggetto al bivio delle sue formazioni morbose e che si fa rigorosamente con l'aiuto dell'inconscio. Esso è giuridico, nel senso di un primo diritto, che è in capo al soggetto e alla sua facoltà di agire nel rapporto con gli altri secondo norme, che egli può imputarsi. Faccio un esempio che traggo da un lavoro già condiviso insieme e ora confluito in un libro[5]; si tratta del commento al racconto di Kafka “Davanti alla legge” nell'opera Il processo. Il contadino chiede al guardiano della porta della legge se può accedervi e si sente sempre rispondere di no. Non è in merito al contenuto della sua domanda che riceve risposta negativa, ma in merito all'istanza stessa del domandare autorizzazione. Perché – si sente rispondere alla fine – la porta della legge è sempre stata lì per lui, era la sua porta. Non è senza legge quel contadino per il fatto di non averne varcato la porta: la sua legge di moto del corpo nella sua relazione con gli altri sarà quella di chiedere autorizzazione all'altro. È questa la norma con cui quel contadino ha condotto la sua vita: farsi autorizzare. Orientarci nei rapporti secondo il principio che esista innanzitutto la legge dello Stato a cui chiedere autorizzazione o protezione è la legge del querulomane, figura clinica che si trova ben delineata negli scritti di Contri e degli autori SAP[6]. In ogni caso anche lui non agisce senza un principio o norma personale, che è proprio quella di farsi guidare dalla legge dello Stato.
Ritorniamo ora alla critica al rapporto tra psicanalisi e diritto di Chaumon, perché ci conduce al tema dell'imputabilità. Essa evidenzia un fraintendimento attorno al concetto stesso di inconscio,concepito come un ambito della psiche umana sul quale il soggetto non ha alcuna padronanza e che anzi rappresenterebbe quella dimensione altra, profonda, separata e inaccessibile che condizionerebbe l'agire del soggetto, fino quasi a costituirne l'alibi. Questa visione distorta dell'inconscio è alla base del concetto di trauma, come evento esterno ed estraneo al soggetto che lo condiziona e di cui il diritto dovrebbe, secondo una certa vulgata, tener conto per comprendere se non addirittura giustificare la condotta di un individuo. È stato Lacan, secondo Chaumon, a correggere questa visione, escludendo innanzitutto che si possa parlare di una profondità della psiche contrapposta alla superficie della coscienza. La nostra vita psichica invece si srotola su una superficie simile al nastro di Moebius che non conosce soluzione di continuità tra fronte e retro, tra sotto e sopra, tra dentro e fuori. Uno stesso significante può passare da un registro all'altro, comparire sulla superficie del discorso, scomparire e ricomparire. Quante volte in analisi è possibile osservare questa evidenza cieca? Questo darsi e ritrarsi della parola densa, ricca di possibili nessi e di implicazioni soggettive? Pensiamo al caso dell'interpretazione di un sogno, ad esempio: un significante che era stato ben evidenziato nella presentazione del sogno, potenzialmente capace di muovere diverse associazioni, perde la sua evidenza nel momento dell'elaborazione del sogno. Si può persino osservare come esso si imponga con la sua assenza dal discorso dell'analizzante, che letteralmente gira a vuoto o gira intorno. Rimetterlo nella scena del discorso può far virare il lavoro dell'analizzante in direzioni nuove, ma soprattutto esso può trovare una direzione che prima non aveva. Come in questo esempio, in cui si tratta di un sintagma: “Sì, signora”, comparso nella presentazione del sogno, scomparso nell'elaborazione successiva; la sua ricomparsa a fine seduta ha consentito all'analizzante, che ne ha fatto tesoro, di passare dalla lamentela all'imputazione del proprio accondiscendere come fonte di un sempre rinnovato risentimento. Perché non considerare anche questo un modo con cui intendere l'espressione “diritto alla parola”, vale a dire: darle una direzione, o anche accogliere la direzione che la parola offre? Vedremo che l'accogliere la direzione che una buona associazione offre, scegliere di dare una certa direzione al proprio pensiero, ha a che fare con la questione dell’imputabilità.
Non si può che essere d'accordo con Chaumon quando afferma che certe versioni dell'inconscio hanno un solo difetto "quello di dimenticare il soggetto dell'inconscio. Accumulando prove del suo assoggettamento, essa non ci dice niente del modo in cui egli vi si inscrive, pone l'antecedenza temporale come prevalenza causale. Questa presentazione dell'inconscio fa a meno del soggetto in fondo. (…) Parlare di 'soggetto dell'inconscio' e non solo di soggetto all'inconscio è da intendere radicalmente nel senso in cui non c'è inconscio se non del soggetto. La prova si chiama rimozione: non c'è rimozione che non presupponga un soggetto e il suo rifiuto di una certa associazione significante che esso rigetta"[7].
Il soggetto non è solo assoggettato all'inconscio è anche e soprattutto soggetto dell'inconscio; egli è l'artefice della rimozione e allo stesso tempo colui che ne soffre le conseguenze. Ricordarsi che la rimozione è un atto soggettivo è l'anticamera del lavoro di imputabilità. Rinnegare che la rimozione e la nostra vita psichica dipendano dal soggetto dell'inconscio, quindi escludere per principio la possibilità di imputarsi la propria vita psichica, è la perversione. Tuttavia, persino questo atto di rinnegamento, resta un atto di cui il soggetto è imputabile, con conseguenze sulla norma con cui tale soggetto si orienta nel norma con cui tale soggetto si orienta nel rapporto con gli altri[8].
Riporto un sogno grazie al quale un'analizzante ha fatto un esercizio di imputazione. Una giovane donna sogna di uscire dalla casa di famiglia in cui ha vissuto la sua infanzia per raggiungere i fratelli che l'attendono in auto. Quando esce, l'auto con i fratelli non c'è più e lei rientra nella casa a chiudere le imposte. L'elaborazione del sogno parte dal risentimento e dalla rabbia procurata dall'abbandono e solo in seguito, quando lo sfogo del risentimento non procura alcuna soluzione ma piuttosto alimenta un sentimento depressivo che va di pari passo con l'affievolirsi del pensiero e della parola in seduta, l'analizzante comincia a parlare d'altro, muovendo dall'osservazione, apparentemente neutra, che la sua casa non aveva imposte, ma tapparelle. Si impone all'attenzione la parola imposta, che da quel momento rovescia la ricostruzione del sogno e fornisce una direzione al pensiero. A chi è imputabile l'atto di chiudere le imposte? E che peso ha il chiudere e l'imporre nel rapporto con i fratelli? Com'è immaginabile, dal momento in cui l'analizzante individua il lemma che sottende la rimozione, il lavoro dei nessi, delle associazioni, cioè il lavoro del pensiero riprende fecondo, rovesciando la messa in scena, passando dall'abbandono subito passivamente alla complicità nell'assenza di rapporto. Cade la rabbia e il sentimento depressivo, che avevano accompagnato i primi pensieri e l'analizzante si ritrova con un nuovo pensiero. A questo punto la volontà ha il suo peso, contro la pigrizia e la paura. Si tratta di riconoscere l'offerta gentile e allo stesso tempo spaesante di pensiero che viene dall'inconscio e farsene qualcosa; per questo l'inconscio è pensiero amico del pensiero, perché dà da pensare. Non sempre è così. Il soggetto rimesso al bivio può scegliere di insabbiare nuovamente il suo pensiero nelle teorie, che veicolano presupposti con effetti di risentimento, oppure di trattenere l'esile ma vitale suggerimento di pensiero che viene da “imposta”. La salute è l'imputabilità, ovvero non è necessariamente scegliere la seconda via, che porterebbe alla guarigione intesa come rilancio del pensiero del rapporto con l'altro, ma sapere imputarsi la scelta che si è fatta: “non riesco a rinunciare al risentimento, per questo non frequento i miei fratelli, non prendo alcuna iniziativa e attendo che siano loro a fare la prima mossa...che comunque mi lascia scontenta”. C'è una perfetta consonanza tra imputabilità e il riportarsi al bivio descritto nel passo di Freud tratto da L'Io e l'Es. Possiamo individuare anche una certa prossimità con la teoria dei quattro discorsi di Lacan. Ciascuno dei quattro discorsi – o cinque, includendo quello del capitalista – può essere letto secondo il pensiero dell'imputabilità, per il quale, data una certa posizione assunta dall'agente nel suo discorso, conseguono effetti diversi su di sé e sugli altri. Le relazioni tra agente e altro, descritte nei quattro discorsi, non fissano delle relazioni intersoggettive rigide, ma mostrano le implicazioni reciproche degli elementi del discorso gli uni agli altri o anche, detto con Contri che in questo modo rilegge il concetto di pulsione, gli effetti della norma o legge di moto che il soggetto si è dato per stabilire la sua relazione con l'altro. Che ne è della relazione con l'altro, quando il soggetto agente assume come legge del discorso o del moto del suo corpo quella del padrone, del dominio, del comando? Quali sono gli effetti o sanzioni che osserverà? Che ne è del soggetto e del suo rapporto con l'altro quando assume come norma costituente del suo pensare e agire il sapere astratto? Che ne è del rapporto con l'altro quando il discorso è quello dello psicanalista?
Nel sogno di “imposta” riconosciamo il discorso dell'isterica. Il discorso dell'isterica/o è tale per cui l'agente pone l'altro in una posizione di comando, è l'altro a sapere, l'altro ad avere iniziativa, l'altro ad autorizzare, è l'altro a potere per me ciò che io non posso (nel sogno i fratelli che possono decidere di piantare in asso la sorella). Afferma Lacan: «Quel che l'isterica vuole è un padrone. Al punto che bisogna chiedersi se non sia da qui che è partita l'invenzione del padrone (corsivo mio). (…) Lei vuole un padrone. Vuole che l'altro sia un padrone, che sappia molte cose, ma non tante da non credere che è lei il prezzo supremo di tutto il suo sapere. In altre parole, vuole un padrone su cui regnare (corsivo mio). Lei regna e lui non governa».[9] L'isterica non solo mette l'altro in posizione di comando, ma quando pensa ad una via di uscita, passa lei stessa al comando, magari attraverso strumenti che il risentimento sa ben ispirare, come il senso di colpa. Cerca la soluzione nel rovesciamento della posizione, quando in realtà per uscire dal proprio giogo occorre imputarselo con un lavoro di pensiero. Nel discorso dell'isterica e nella connessa resistenza al lavoro imputativo[10]troviamo alcuni degli elementi per comprendere l'ontogenesi della pulsione di potere nell'individuo nei suoi rapporti con gli altri. Faremmo la scoperta che la “servitù volontaria” non è l'effetto indesiderato della pulsione di potere, ma un suo imprescindibile e costitutivo ingrediente.
L'imputabilità – antecedenti
Nello scritto Che cos'è l'Illuminismo?, pubblicato nel 1784 nel periodico tedesco «Berlinische Monatsschrift», Kant afferma che «I Lumi sono l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso».[11]
Kant usa il concetto di minorità, nel senso di incapacità dell'uomo di servirsi in proprio de suo stesso intelletto, accanto a quello di imputazione. Dal riferimento a quest'ultimo concetto si capisce che lo stato di minorità, quand'anche fosse dovuto all'influenza di un altro uomo o sistema/ istituzione sul soggetto stesso, è preparato, reso possibile, dalla disponibilità del soggetto stesso a farsi condizionare. Tanto che si potrebbe affermare che l'Ausgang, l'uscita dallo stato di minorità in cui consiste l'Aufklärung, ha inizio per il soggetto proprio con l'imputarsi tale stato.
Spesso commettiamo l'errore di considerare solo la prima parte di questa frase, celebrando certe occasioni storiche come l'“uscita da...”: così abbiamo celebrato la rivoluzione francese, il '68 e più recentemente le primavere arabe, pensando a ciascuno di questi eventi come a un rinnovato illuminismo. Abbiamo tuttavia gravemente trascurato di chiederci come mai alla presunta uscita, spesso seguita da un'oscurità persino peggiore, non sia quasi mai corrisposta una riflessione accurata sul come si fosse finiti lì, come se ciò da cui siamo usciti fosse il risultato di un evento subito solo passivamente e più forte di noi. Nessun illuminismo si prepara per noi senza la domanda sul perché ci eravamo smarriti nella minorità; anzi, in assenza di una tale domanda o imputazione: perché siamo diventati sudditi di un regime? un nuovo regime, lo stesso di prima o persino peggiore, si prepara. L'Illuminismo è imputarsi lo stato di minorità, non è la sola presunta uscita dallo stato di minorità, non c'è Ausgang senza imputabilità.
A Kant dobbiamo riconoscere anche la chiarezza della distinzione tra ciò che è sottoposto alle leggi della natura e ciò che è sottoposto alle leggi della morale. Di quanto fa e di come sia l'uomo, al di là del suo corpo, non possiamo chiederci la causa, ma piuttosto il movente. Secondo quale legge morale o meno l'uomo agisce? L'intera sua vita psichica è vita morale, di moventi e non di cause.[12] Ciò presuppone che l'uomo sia libero e non sottoposto a leggi causali. La libertà in Kant è un presupposto. Hans Kelsen[13] riprende tale concetto per sostenere l'idea che le vicende umane si inscrivono in un ordine di eventi tra loro connessi da una logica imputativa e non causalistica. Ma nello spostamento dell'attenzione dalla libertà presupposta all'imputabilità sta tutta l'originalità del contributo di Kelsen:
Soltanto in quanto un uomo è libero può essere considerato responsabile di certi atti, può essere ricompensato per il merito, può far penitenza per il peccato, può essere punito per il delitto. Generalmente si afferma che soltanto la sua libertà, cioè la sua esenzione dal principio di causalità, rende possibile l'imputazione. È invece giusto l'opposto. Gli esseri umani sono liberi perché imputano la ricompensa, la penitenza o il castigo come conseguenza, al comportamento umano come condizione, malgrado la sua determinazione in base a leggi causali, perché questo comportamento umano è il punto finale dell’imputazione.[14]
Egli, infatti, compie la scelta di anteporre alla libertà come fatto della ragione (Kant, Critica della ragion pratica) l'imputabilità come atto della ragione, togliendo così la libertà dal campo dei fenomeni presupposti, per inscriverla in quello dei fenomeni acquisiti dall'uomo con il suo lavoro.
Giacomo Contri estrae dalle riflessioni di Hans Kelsen esattamente questa direzione : l'uomo non è imputabile perché libero, ma è libero perché è imputabile. La libertà non è un presupposto, ma consegue ad un lavoro di pensiero. Ciò che vale per la libertà, vale anche per l'amore, ad esempio. L'amore presupposto ha a che fare con l'idea che esso debba essere connaturato a taluni rapporti – madre-figlio, fratelli, ad esempio – e non che sia il frutto di un lavoro di partnership costantemente rinnovato. La fonte – afferma Contri – di tutte le teorie dell'amore presupposto (da cui derivano le nostre più profonde sofferenze) è quella secondo cui una madre non può che volere bene al figlio, per legge naturale o istinto. Così anche i fratelli non possono che volersi bene per natura (per una sorta di legge naturale, quella di consanguineità). Se agisco con questa legge nei confronti dei miei fratelli non farò che aspettarmi come dovuto qualcosa che non avrò perché non ho provveduto insieme a loro a costituirlo (ritorniamo al senso del lavoro del sogno di imposta). È l'ideologia della Famiglia presupposta, sempre pronta a riempire le piazze di ogni colore politico, e che si dimostra efficace strumento di psicologia delle masse, perché unisce tutti. L'imputabilità è innanzitutto premiale: sancisco con un saluto o un ringraziamento un atto meritevole di qualcuno nei miei confronti. Ad esempio, viene sancito con l'appellativo “Mamma” o “Papà” chi tratta qualcuno da figlio, beneficiandolo con atti di attenzione e di cura. Succede frequentemente che un bambino chiami mamma la maestra o chi si prende cura di lui. Non è un errore, è un riconoscimento. Sanzione premiale. La psicoanalisi è una pratica di imputabilità che ha come sua sanzione premiale la libertà.
Un esempio di imputabilità che non ha bisogno di commenti: un giovane uomo, che ha sofferto molto l'ingerenza materna nella sua vita personale, sogna che nella sua casa sono entrati i ladri. Preoccupato va nella camera da letto dei genitori e vede la madre che dorme nel posto che dovrebbe essere del padre. Si avvicina a lei e lì vede un'altra persona con particolari tratti fisici, in cui tuttavia riconosce se stesso. Gli dà due schiaffi e gli dice “Mammone”.
Il lavoro imputativo è connesso al senso laico (layen) della psicoanalisi; rifiuto di qualsiasi presupposto e di qualsiasi spiegazione deterministica dell'agire umano. Da ciò la sua estraneità alla logica causalistica medica e ad ogni visione della psicologia dell'uomo che non prenda innanzitutto in considerazione il valore soggettivo e non oggettivo di quel “dell'uomo”. La psicoterapia, come ogni forma di persuasione, da quella politica a quella religiosa, – con l'idea che vi sia un esperto titolato più esperto di psicologia del soggetto in cura – rende di fatto quasi impossibile l'esercizio dell'imputabilità. Qualcun altro ne saprà sempre di più. La psicanalisi opera secondo il paradigma del permesso giuridico, disabilita il paradigma del comando, della prescrizione e dell'autorizzazione e promuove quello dell'imputabilità, che non chiede il permesso per ciò che è già permesso non essendo proibito. Non fare alcuna obiezione a che qualcuno si metta nella condizione di fare un esercizio di imputazione, ovvero di riappropriarsi della sua psicologia, è l'atto psicanalitico. Quale istanza superiore e terza potrebbe legittimare l'esercizio di astensione di qualcuno rispetto al lavoro di imputabilità di qualcun'altro? Tuttavia un lavoro di imputazione non si fa da soli, la resistenza si allenta grazie al transfert. Qualcuno è lì a far posto per un altro al suo lavoro di imputazione e se ci riesce è perché ci è passato non una ma innumerevoli volte nella sua analisi personale. Occorre ancora ribadire che la psicoanalisi così intesa non guarisce direttamente – diversamente dalla medicina e dalla psicoterapia – ma riporta il soggetto al bivio della scelta morbosa.
Propongo per finire un esempio di esercizio di imputabilità, che traggo da una pagina del Seminario XVII, Il rovescio della psicoanalisi e che vede protagonista lo stesso Lacan.
Jacques Lacan, un giorno del mese di novembre del 1969, diede inizio al suo seminario presentando a uno studente le sue scuse, o meglio qualcosa di ancor più significativo di una scusa. Ciò avvenne pubblicamente, con la speranza che fosse presente anche la persona interessata. Riporto per esteso l'intervento di Lacan perché mi sembra un esempio di imputazione di cui far tesoro:
Un giorno una persona, che forse è qui e che probabilmente non si segnalerà, mi si rivolse per strada mentre stavo salendo su un taxi. Arrestò il suo motorino e mi disse: - È lei il dottor Lacan? - Sì. - le dissi, - perché? - Riprende il suo seminario? - Certo, tra poco. - E dove? - E a quel punto, senza dubbio avevo le mie ragioni, spero che questa persona vorrà credermi, le risposi: - Lo vedrà -. Al che lei partì sul motorino inforcandolo con una rapidità tale da lasciarmi interdetto e, allo stesso tempo, carico di rimorsi. Sono questi rimorsi che ho voluto esprimerle presentandole oggi, se è qui, le mie scuse perché mi perdoni. In verità, questa è un'occasione per osservare che comunque non è mai a partire dall'eccesso di qualcun altro che, almeno apparentemente, ci si mostra irritati. È sempre perché questo eccesso viene a coincidere con un nostro eccesso. Ed è proprio perché io ero già a questo punto, in uno stato che rappresentava un eccesso di preoccupazione, che senza dubbio mi sono comportato così, in un modo che ho subito trovato intempestivo.[15]
Ho concluso.
Alberto Zino
Ci sono questioni da parte vostra? Domande, richieste di chiarimenti o altre cose ancora? Mentre ci pensate, aggiungo solo tre cose rapidamente. Nel libro di Beatrice Bonato Sospendere la competizione, tra gli altri c’è questo brano. Lei in quel momento sta parlando di come in rapporto al gioco d’azzardo vi sia sicuramente in gioco il fantasma della morte. Vale a dire che alla fine il gioco sia un gioco-con-la-morte.
Ma non è soltanto nella scossa eccitante dell’azzardo, così prossimo al rischio mortale, che avvertiamo la presenza della questione della morte. La morte è infatti corteggiata anche in un modo meno appariscente e meno trasgressivo: nell'assoggettarci di buon grado alla macchina produttiva e amministrativa, nel sottoporci alla coazione a ripetere all’infinito il gesto della sfida, respiriamo quasi l’atmosfera di una pulsione di dominio e di appropriazione forse ancora più originaria di ogni altra. Freud l’aveva chiamata Bemächtigungstrieb pulsione di appropriazione, parola in cui è ben visibile quell’intreccio tra il desiderio e il dominio che costituisce il motore della competizione in tutte le sue manifestazioni[16].
Rispetto al lavoro di Claudia, credo che qui vi sia un gioco che possiamo reperire, rilanciare, tra ‘imputazione’ e ‘appropriazione
Secondo punto che suggerisco per la nostra conversazione. Quel che resta del lupo è un testo che ha scritto Eliana Villalta, si trova all’inizio di Animali uomini e oltre, la raccolta curata da Claudia ed Eliana sul seminario di Jacques Derrida La bestia e il sovrano. In questo testo, Villalta scrive:
Ci sembra che l’origine della rimozione stia in questa inaccettabilità della domanda, che riguarda non solo la vita in rapporto alla ragione, ma specialmente l’uomo: all’interno di essa si profila un pensiero della sovranità [e quindi della padronanza, dell’appropriazione] come feticcio e fantasma arcaico, correlato di un diniego che colpisce l’animalità, oltre che la differenza sessuale, e di una rimozione culturalmente e storicamente quasi inaggirabili. La sovranità per Derrida è un feticcio che continua a impedire di farsi domande sul potere che rimettano in discussione la concezione che l’essere umano ha di sé.
Provengo da una formazione con uno psicanalista che si chiamava Aldo Rescio. Per costui quello che era assolutamente centrale non solo nella formazione dell’analista, cioè dell’analisi cosiddetta didattica, ma in tutte le analisi, nella struttura stessa, nel cammino dell’analisi, era mettere in questione la concezione che si ha di sé. Perché in quella concezione risiede il modo in cui la dimensione del potere, se posso dirlo in maniere un po’ naïf, ci fotte il pensiero. È un po’ difficile, se manca questa - lo dico in maniera libera - imputazione politica dei sé con se stessi, che non può esserci se non c’è quella stessa imputazione politica del lavoro dell’altro con sé e di sé con l’altro, è un po’ difficile pensare che l’analisi possa essere quello che per noi non dovrebbe essere nient’altro e cioè l’opposto di un mero processo di riadattamento all’esistente.
Chiudo il brano di Villalta:
Nella decostruzione, la psicoanalisi è invece la chiave più importante per accedere alla domanda e per tentare di dare delle risposte.
Oppure per tentare di produrre altre domande ancora. Che talvolta le domande, riposandosi un po’, assumono la forma della risposta. Ma non cessano per questo di essere domande.
Scavando nell’origine del fantasma e del feticcio, essa può favorire un altro sguardo sul sacrificio e sul legame soggettivo e intersoggettivo. Se la psicoanalisi si pone fuori dall’orizzonte teorico biopolitico - ed è anche attualmente espulsa dai dispositivi governamentali - ciò non dipende solo dalla sua origine foucaultiana, ma sopratutto da un suo accesso diverso all’umano[17].
E qui Villalta legge qualcosa che tiene insieme Agamben e Foucault.
Terzo punto, che è una domanda per Claudia. Questa frase si trova a pagina 31 di un libro molto bello, devo dire, che conosco ancora poco, però è carino, porta con sé i nomi di Derrida, Blanchot e Kafka[18]. A un certo punto Claudia scrive una cosa intorno all’imputazione. O forse proprio lontano da lei:
«anziché imputarsi ci s’impunta».
sarebbe carino spiegare questa cosa….
Claudia Furlanetto
Dico qualcosa su questo. Anziché imputarsi ci si impunta, perché questa è in fondo la questione che sollevavi anche leggendo il passo di Eliana. L’imputazione lavora su questa nostra tentazione che è la pulsione di potere e quando viene toccata ci vuole un grande esercizio di umiltà. Ecco perché occorre essere estremamente delicati nel lavoro di analisi. Suggerire non è l'approccio da consigliare. Possiamo fare solo un nobilissimo e accogliente silenzio all'esercizio di imputazione, perché si vanno a toccare aspetti della persona molto importanti come ad esempio l’amor proprio o l’orgoglio. All'imputazione può seguire un momento di grande pace, perché si rinuncia a qualcosa a cui pensavamo non fosse possibile rinunciare. Una specie di scoglio in mezzo all’oceano. Insomma qualcosa a cui siamo tenacemente legati in nome della sicurezza. Prima raccontavo il sogno “d’imposta”: che cosa vuol dire per quella donna che ha passato molte sedute a lamentarsi di come si sentiva maltrattata, fino ad esserlo realmente, rovesciare la prospettiva dicendo sì ma io ci sto mettendo del mio in tutto ciò? significa rinunciare alla rabbia, farla cadere, far cadere il risentimento e finalmente aprire una direzione nuova del pensiero ma anche dell’agire.
Al contrario “l’impuntarsi” è il momento in cui la persona non vuol rinunciare al godimento che gli viene dall’esercitare il risentimento, la rabbia, cosa che succede spesso. È una delle ragioni per le quali un'analisi può essere molto lunga. Le persone restano “impuntate” perché fanno fatica a rinunciare per amor proprio ad una certa dinamica della padronanza. Se sono assoggettato, se mi sono lasciato assoggettare, ne esco facendo il padrone. Si tratta di una logica del rovesciamento speculare, che però continua a produrre sofferenza. È un’altra forma dell’impuntarsi, che ha a che fare con l'incapacità di rinunciare a quell’amor proprio che in Animali, uomini e oltre, collego alla questione dellabêtise, tema su cui lavora in quel libro anche Beatrice. Ci sono due cose che rendono difficile il lavoro dell’imputabilità: una certa pigrizia e la viltà (far prevalere il bisogno di sicurezza). Nel secondo numero della rivista di psicanalisi critica, dedicato alla “servitù in-volontaria” , si parla appunto di servitù, che è volontaria per viltà.
Quindi sono tante le questioni per cui ci s'impunta. C’è del godimento. C’è la pigrizia di pensare che il rovesciamento consista solo nel cambiare di posto gli agenti della relazione di dominio (da assoggettato a assoggettante) lasciando invariata la logica. Abbiamo visto prima come nel discorso dell’isterica ciò che l’isterica vuole è un padrone su cui comandare, mentre lui non governa. Troviamo esattamente in questo punto qualcosa dell’ontogenesi della pulsione del potere, che sarebbe interessante approfondire. Vi ricordo il passo di Lacan dal Seminario XVII con cui prima ho concluso la relazione. Trovo incredibile la capacità di Lacan di imputarsi. L'imputazione in questo caso è proprio la decostruzione dell’amor proprio. Che cosa è quest’eccesso? Dice Lacan…: “ero preso da me”.
Eliana Villalta
Non ci possiamo liberare dall’amore di sé. Ci sono queste due formule rousseauniane, l’amor proprio e l’amore di sé. Sono diverse, in Rousseau c’è tutto un lavoro per distinguerle; in realtà credo che in ciascuno di noi non sia così semplice.
Claudia Furlanetto
Il lavoro di imputazione richiede un certo volersi bene, un certo amore di sé (Contri afferma che ci vuole un po' di salute, salus). L'amor proprio negativo (alla Rousseau) è connesso a varie forme di ostilità verso l'altro, risentimento, aspettative di riconoscimento, ecc. Tuttavia il lavoro d’imputazione non porta a un’umiliazione dell'amore di sé positivo, ma alla caduta o indebolimento di quello negativo. L'imputazione, nella forma proposta da Contri, può portare alla riscoperta della posizione soggettiva nella relazione con l’altro, che è amore di sé nell'altro e dell'altro in sé (Contri preferisce parlare di partnership vincolando questo amore agli atti del rapporto). Per questo possiamo parlare veramente di un beneficio del lavoro dell’imputabilità (Beneficio dell'imputabilità è il titolo di un saggio di Contri). Questa è la posta in gioco. Cioè passare da una soggettività cristallizzata, chiusa, ad una soggettività che si apre al ricevere dall'altro, al far posto all'altro e all'accomodarsi nel posto fatto dall’altro.
Beatrice Bonato
Volevo chiedere una cosa. Intanto ringrazio Alberto per questo abbinamento molto corretto che ha fatto. Volevo dire esattamente quello. Anche le poche indicazioni che ho dato sulla psicanalisi, chiaramente non così approfondite come quelle che ha fatto Claudia, andavano verso quella direzione lì, perché mi sembra che la psicanalisi sia una pratica di sospensione. E l’imputazione è qualcosa di simile, non è la distruzione, l’abolizione di qualcosa. Questo fatto che c’è un bivio è molto bello, il portarsi al bivio delle formazioni morbose e quindi di possibilità che si contrappongono. Ma forse la questione è di sospendere proprio la contrapposizione tra queste due strade così opposte. Bisogna sospendere e vederle. Non avere l’alternativa, in qualche modo.
Poi mi domandavo se alla fine la psicanalisi vista così non recuperi un’idea che di solito non siamo abituati ad associare alla psicanalisi, cioè la trasparenza. Perché sentiamo da sempre parlare di analisi, almeno Lacan, come un attacco all’idea della trasparenza. Però qui, una certa trasparenza in qualche modo viene valorizzata.
Una fatica spirituale. Una fatica etica.
Claudia Furlanetto
C’è un lavoro di giudizio ed è un lavoro che va concluso, non si sospende. L’opacità è in qualche modo legata a quelle che sono delle teorie presupposte, che disorientano il pensiero, talvolta lo espropriano. Ecco perché l’imputabilità è all’incirca il pensiero senz’alibi, perché è lavoro del giudizio senza teorie, ideologie che vincolano il pensiero, lo esautorano o lo condizionano. La teoria per eccellenza, secondo Contri, è quella secondo cui “la madre ama il figlio”, ama per natura, ovviamente; di fronte a una teoria così il pensiero non può che essere appunto opaco e confuso. Vi riporto una barzelletta, anzi una vignetta, forse rielaborata, di Sturmtruppen. C’è un soldatino tedesco, di guardia nella notte e nascosto dietro un cespuglio, sente in lontananza un rumore. Si ferma e grida alto là, chi va là! Amiken o Nemiken? E dall’altra parte si sente rispondere: Parenten!.
Ecco la trasparenza nel lavoro d’imputazione: la questione della soddisfazione è connessa alla capacità di distinguere ciò che mi piace da ciò che non mi piace, un bambino ha chiaro ciò che gli piace e ciò che non gli piace. Poi a un certo punto invece non è più così semplice; talvolta non lo è neanche più capire ciò che piace. E tutto questo ha a che fare con qualcosa che è dell’ordine del presupposto. Ecco, io credo che l’opacità, la lucidità del pensiero non sia la padronanza del pensiero, non sia avere delle teorie certe che ti guidano. Prima dicevo che la parola dà una direzione, diritto alla parola, verso la parola, intesa anche come parola che dà le direzioni, ma non credo che la trasparenza sia quella di un pensiero padrone, ma piuttosto quella di un pensiero che fa costantemente esperienza di umiltà, che cioè tratta gli errori propri e le tentazioni all’errore come un’occasione per espandere la propria esperienza del mondo, delle relazioni con gli altri. È una dimensione di questo tipo che apre la trasparenza e il lavoro d’imputabilità. La gran parte del lavoro riguarda decostruire le teorie di cui sono fatti i nostri discorsi, le nostre autorappresentazioni e rappresentazioni degli altri e del mondo. Di fronte a parole come “ama” e “libertà”, esempi di parole fortemente contaminate da teorie, noi ci confondiamo. È qui che occorre fare un lavoro di imputazione e ricondurre tutto all'esperienza, ad atti e fatti nostri e degli altri nei nostri confronti, non a presupposti. C’è una trasparenza che potremmo persino associare al tema della parresia, del coraggio della verità, di cui parla Foucault nei suoi ultimi seminari al Collège de France, che è anche chiarezza di posizione rispetto al potere proprio e dell’altro.
Eliana Villalta
Però non è priva di violenza. E qui torniamo secondo me alla questione di prima: c’è una trasparenza che fa male. Può far male a qualcuno. Anche senza intenzione, non necessariamente. Nella parresia in se stessa, nella forza della verità.
Claudia Furlanetto
In merito al lavoro psicanalitico non parlerei proprio della parresia come ti dico la tua verità! Questo sarebbe violento! Penso possa essere un atto parresiastico l’atto di imputazione perché in fondo c’è un (pre)potente in te, teorie introiettate, a cui devi avere il coraggio di dire la verità. Quella verità di cui è depositario l'inconscio e che si tratta di raccogliere. Il potente non è esterno a te. È in te. Lo sappiamo, è l’autorità introiettata, fatta propria. Ed è per quella che noi siamo vili. Anche se non ci fossero più gli altri che ci hanno condizionato nella nostra vita reale, ci sarebbe sempre questa voce. Quindi vedo il momento dell’imputazione come un atto parresiastico del soggetto verso se stesso. Verso quella pulsione di potere che agisce in sé e anche contro di sé.
Alberto Zino
Chiedo di nuovo se è possibile fare un giro.
Federico Fabbri
Io volevo fare una domanda sulla trasparenza e su quel piccolo passaggio di Alberto. Mi chiedevo se in qualche modo l’atto di imputazione può essere rapportato o ha un rapporto con l’atto suicidario. Perché anche rispetto al discorso sulla violenza credo che qui ci giri intorno anche la problematica dell’atto analitico.
Claudia Furlanetto
Per me la parola suicidio è una parola forte, che fatico a collegare con l'imputazione. Ma se con questa parola indichiamo qualcosa dell'ordine della castrazione, allora potrei accettare il nesso. L'imputazione può essere il momento in cui il soggetto cade, rinuncia a mantenere una posizione fallica. Può essere un atto di “morte” o meglio di mortificazione di una parte di sé, quella che comanda: quella che fa obiezione a se stessi e al rapporto con gli altri. Ci vuole questo coraggio. Anche di arrivare a quel punto lì. Non ho niente da perdere, vado lì. Al momento dell'imputazione come castrazione segue tuttavia apertura, all'altro e alla vita.
Federico Fabbri
Mentre lei parlava mi veniva in mente un passaggio del nuovo libro di Gabriella Ripa di Meana. Ho cercato di reperirlo, non ci sono riuscito. L'inconscio fa questi scherzi. La cosa interessante, per come la sentivo parlare, per quello che mi evocava, è che comunque c’è sempre sul concetto d’imputazione un altro concetto cardine, sempre presente e sempre vivo che è quello di rimozione. La cosa interessante del testo di Ripa di Meana è che lei invece punta un pochino il dito sulla crisi della rimozione nella contemporaneità. E quindi mi chiedevo appunto la relazione con la crisi del concetto di rimozione, la questione dell’imputazione in rapporto all’atto suicidario. Non al suicidio, ma l’atto.
Claudia Furlanetto
Non so. Non saprei portare avanti da me la conversazione su questo punto. Non so neanche se ho ben compreso la questione da lei posta. Provo ad aggiungere qualcosa con quel che che mi viene in mente, ovvero, collocare il lavoro dell’imputazione all'interno di nevrosi, psicosi e perversione, per osservare all'interno di ciascuna di esse cosa sia l'atto soggettivo, quando sia possibile il lavoro di imputazione. Dov'è l'atto nella rimozione, nella forclusione e nel rinnegamento? Nell'associazione Studium Cartello, ora Società Amici del Pensiero, hanno lavorato su questi temi negli anni Novanta psichiatri-psicanalisti come Ambrogio Ballabio, Alessandro Alemanni e Pietro Cavalleri. Occorrerebbe avvalersi di questi lavori.
Federico Fabbri
Dicevo appunto che come presupposto di base rispetto alla questione dell’imputazione, per lavorare attorno all’imputazione ci deve essere rimozione. Questo mi sembra da quello che lei, diceva è centrale.
Claudia Furlanetto
Sì è il nucleo centrale; tuttavia la questione dell'imputabilità ha un senso anche rispetto al rinnegamento nella perversione. Nel 2013 io e Beatrice abbiamo lavorato sulla questione del fantasma; quel lavoro mi ha permesso di osservare come anche nella perversione vi sia un momento in cui il soggetto sceglie. C’è un momento in cui il soggetto sceglie quale strada prendere ed è la strada del rinnegamento, il rinnegamento della propria insoddisfazione, ad esempio. Dopo il rinnegamento, dopo aver operato tale scelta, dove trova il soggetto l’energia pulsionale per volere qualcosa di nuovo e far partire un lavoro di pensiero? Ha chiuso, spesso oggettivando lo stato in cui si trova, con teorie perlopiù ciniche.
Alberto Zino
Volete fare qualche domanda, sollevare questioni, chiedere chiarimenti, incrociare parole?
Mario Ajazzi Mancini
Quattro verticale! Era tanto che aspettavo tu dicessi incrociare parole per dirti quattro verticale! Volevo chiedere a Claudia una cosa. Mi è piaciuta molto questa cosa. A me faceva pensare in larga misura al lavoro che fa Agamben sull’atto e la potenza che poi insomma è la questione paolina: come è possibile che il peccato compiuto possa essere revocato. Si tratta di restituire un atto compiuto a quello di potenza. Mi sembra che sia molto affine a questo principio d’imputazione.
Claudia Furlanetto
Forse mi possono aiutare i miei amici presenti a lavorare su questa questione di Agamben, perché io personalmente non ne so molto, lo confesso. Però ascoltando quello che hai detto ritrovo la questione dell'imputazione. È una buona notizia il fatto che sia soltanto una nostra costruzione l’idea che ci sia qualcosa di compiuto. Possiamo ritornare dal fatto/atto compiuto al momento potenziale/intenzionale e imputarcelo con i suoi perché.
Mario Ajazzi Mancini
...non ci sarebbe possibilità di rilancio! No? A parte la vecchia signora, poi il resto è tutto revocabile. E poi un’altra cosa mi aveva colpito, giusto così. La questione del bivio. Quando sento dire la parola ‘bivio’ mi viene sempre in mente Edipo che sceglie di tornare verso Tebe, invece di andare in quell’altra strada. Quindi, il tratto destinale, non l’hai sviluppato più di tanto. Come la vocazione fatale diventi poi invece un proprio destino in questa operazione, no? Cioè quello che ti sembra dettato dall’esterno, da potenze malvagie e cattive che poi alla fine diventa un tratto destinale quando è possibile in qualche modo anche imputare un’opzione...
Claudia Furlanetto
Esatto. Sì non avevo assolutamente pensato a questa questione del bivio anche rispetto alla storia di Edipo. Sì, interessante. È uno spunto di cui farò tesoro. A me interessa proprio vedere le scelte al bivio. Trovo che lì i soggetti si giochino il loro destino, la loro vita.
Alberto Zino
Interrompo il vostro dialogo, vi siete già corteggiati abbastanza un anno e mezzo fa, voi due. Ci sono tracce cospicue![19]
Tutto questo che stiamo dicendo, comunque tutto ciò che ci preme, che preme a ognuno in questo momento, come lo possiamo legare alla questione del diritto alla parola? Avevi già fatto degli accenni prima, nella tua esposizione. E poi, era molto intrigante quello che diceva prima Beatrice su come un certo modo di pensare e ripensare, attuare o riattuare la psicanalisi almeno minimamente critica potrebbe far sentire qualcosa in rapporto a una parola che nella tradizione psicanalitica non è mai stata molto adoperata, la questione della trasparenza. Un attimo dopo che tu avevi finito la tua frase io ho pensato che da noi la trasparenza potrebbe essere prevalentemente nel senso del trasparire, dello ‘sparire tra’. Se la psicanalisi riuscisse a ‘sparire tra’, sia nell’esercizio clinico delle sue funzioni e anche ovviamente nel lavoro teorico, per esempio, ‘sparire tra’ significherebbe non imputarsi una teoria forte o risolutiva o, come già ammetteva Freud, una concezione del mondo, ma invece la possibilità di procedere di volta in volta. Come suggeriva prima anche Claudia, per accorgimenti, per associazioni, per spostamenti, per domande.
Forse la psicanalisi, per essere tale, sarebbe anche l’ora che ritornasse a quella che penso sia o dovrebbe essere una delle sue funzioni più rilevanti: un sapere non soltanto incompiuto e incompleto, più che per definizione per grazia analitica, ma anche un sapere e una pratica profondamente legate a quella che giustamente Maurice Blanchot porta in campo come la maledizione della risposta. Se la psicanalisi smettesse di bene-dirsi non sarebbe male. Aprirebbe a tutta una serie di questioni che hanno a che fare anche con la formazione. Degli psicanalisti a venire.
Con altri analisti di Firenze stiamo tentando di mettere su un lavoro d’insieme sulla questione della formazione degli psicanalisti.
Pensando al celebre adagio lacaniano lo psicanalista si autorizza soltanto da sé, sarebbe opportuno che la psicanalisi lo rilanciasse su sé stessa, nei termini di una psicanalisi che si forma soltanto da sé. Lasciamo la questione in sospeso. Ci torneremo[20].
Francesco Verri, Eliana non lo sapeva, è uno dei maggiori esperti rousseauiani esistenti, secondo me. Ora sta tentando di mimetizzare questa sua particolare facoltà. Però sarebbe carino, se ne avesse voglia, di riprendere qualcosa anche rispetto a quello spunto di Eliana.
Francesco Verri
Sulla trasparenza...
Alberto Zino
...e l’ostacolo?
Francesco Verri
Sì, e l’ostacolo. Quindi povero Jean-Jacques, che ricorreva nel sogno che ha citato prima la signora, quando l’altra signora parlava di questo imminente parto che era un qualche cosa da cancellare. Cosa che, guarda caso, Rousseau ha fatto ben cinque volte nel corso della sua esistenza.
Quindi la questione Rousseau-Kant rimaneva esplosiva da queste citazioni, da queste ri-citazioni, perché l’ostacolo che oppone Rousseau alla trasparenza del suo animo ottiene un effetto devastante nel povero Kant che invece è costretto a sbrogliare questa matassa in quella maniera poco corretta che lei ha giustamente notato. Ma perché? Secondo me per una questione anche di definizione e qui mi riallaccio alla definizione di imputazione, che per l’appunto, se vogliamo trasferirla sulla questione giuridica, non può che avere una coloritura negativa. Però questo non si verifica sempre. C’è un altro grandissimo psicanalista, il primo degli autori che popolano il libro che Alberto ha prima citato, che a Praga si è trovato in presenza di questa questione.
Come si fa a distinguere l’imputazione da qualcosa di diverso, che direi ascrizione? Quindi mi riferisco più che al suo discorso della presenza davanti alla porta della legge a quell’altro fulminante racconto che si chiama La condanna o Il verdetto, a seconda dei casi. È lì secondo me la chiave di volta di tutta questa questione.
Mario Ajazzi Mancini
Il giudizio.
Francesco Verri
Si. Si tratta di un mio personale vocabolario.
Quindi perché Kafka affronta in questa maniera la questione? Perché l’ostacolo che si incontra sistematicamente nei confronti della posizione della questione è un qualche cosa che non può essere rimosso. A meno di non prendere strade alternative sbagliatissime come quella di Kant. Quindi io pongo queste questioni come cose che possono essere interessanti. Noto solamente che la colpa grave di Kant nel non aver capito l’ostacolo che affliggeva la questione rousseauiana, lui la risolveva in una duplice lettura. Nelle sue passeggiate a Königsberg, quando leggeva Rousseau, diceva che aveva bisogno di due letture: la prima era quella legata alla questione letteraria e la seconda legata alla questione filosofica. Secondo me questa questione per Kant è una questione prettamente psicanalitica.
Claudia Furlanetto
Tutto molto interessante. Quello che però io vi posso dire è questo. Con tutti gli spunti che mi offrite, ho bisogno di prendermi del tempo per lavorare. Mi mettete veramente di fronte a questioni importanti. Posso rispondervi solo improvvisando, ma non vorrei proprio farlo. Provo a dire qualcosa solo sulla questione imputazione e ascrizione.
C’è una differenza che mi viene in mente immediata ed è questa: l’ascrizione appunto è attribuire, ascrivere un atto a qualcuno; nell’imputazione non c’è soltanto l’ascrizione, nell’imputazione c’è anche la sanzione. Il nesso imputazione-sanzione è alternativo al nesso causa-effetto. Poniamo, come dicevo, che un bambino chiami mamma la sua maestra. Il suo chiamare la maestra così è una sanzione premiale a un atto di cura e accoglienza della maestra. Nell’imputazione vanno insieme questi due elementi: posso individuare l’atto che è fonte di beneficio ed il modo in cui questo atto è stato sanzionato. Quindi si accompagna sempre il lavoro dell’imputazione a una sanzione, che è innanzi tutto premiale (vale la pena di sottolinearlo, come ricorda continuamente Contri).
Non è soltanto ascrivere. Questo tema è trattato anche da un filosofo, Paul Ricoeur, al quale è dedicato l’ultimo Quaderno di Edizione, la rivista della Società Filosofica Italiana, sez. Friuli Venezia Giulia, di cui con Eliana e Beatrice faccio parte[21]. Anche lui lavora sul tema dell’imputazione e lo critica per questo legame stretto, formalistico con la sanzione, mentre dice di accogliere dell'imputazione solo l'elemento con cui si riconduce il soggetto alla fonte dell’atto. All'imputabilità Ricoeur preferisce la responsabilità, cioè il rispondere all'altro.
Francesco Verri
Allora, io ho citato Il verdetto kafkiano. C’è un altro ‘verdetto’ che un altro autore cita sempre nel libro citato prima da Alberto che si riferisce al verdetto nei confronti di Rousseau, guarda caso. Cioè a dire, il famoso lungo passo delle Confessioni in cui lui ruba un nastro per farne dono a una giovane ragazza che lavorava in questa villa dove lui era entrato come maggiordomo, ecc.ecc. E per cui, scoperto il fatto - lì c’è una sottile questione sulla situazione secondo la quale sembra quasi che lui faccia di tutto per farsi scoprire. Oppure non faccia, non metta in moto cose per passare inosservato. Morale della favola, si arriva quindi alla condanna. Che viene respinta dall’imputato Rousseau perché fa riferimento a un qualche cosa di diverso, al famoso ostacolo che maschererebbe il normale andamento da una parte della giustizia, e dall’altra del suo modo di essere secondo quello che potrebbe essere il sentiero della trasparenza.
Questo discorso si contrappone, secondo me, in maniera radicale a quello che è stato fatto duecento anni dopo da Kafka. Perciò la questione centrale è che sia l’uno che l’altro pongono la questione. Chiudo questo discorso facendo riferimento anche a quando la pena viene comminata, che potrebbe avere dei diversi aspetti nel momento in cui per esempio la pena anziché essere avversata come nel caso di Rousseau, viene in qualche modo cercata, come nel caso di Kafka, per fare pari con un qualche cos’altro.
Eliana Villalta
Si potrebbe dire poi di questo diritto di scrittura, più che di parola, per Rousseau, no? In rapporto almeno ad alcuni aspetti di quello che si diceva.
C’è anche un’altra considerazione da fare: Rousseau è un “auto commiserante” paranoico, in moltissimi aspetti o momenti della sua vita. Parto da qui per riferirmi a Ricoeur, al lavoro che stavamo facendo ultimamente insieme nel gruppo filosofico. È un punto interessante, quando questo diritto, diventa una sorta di diritto di autocommiserazione, diventa un diritto di rimostranza, ma nel senso più deleterio del termine e appunto Ricoeur non fa questo lavoro su Rousseau, ovviamente, e non lo fa in rapporto alle questioni che stava riportando lei, ma riferendosi a una dimensione che sta diventando sempre più forte della politica del rivolgersi al diritto, come giustizia, nelle varie dispute, nelle richieste di gruppi, di singoli, di minoranze. C’è qualcosa che non va. Tale autocommiserazione si traduce nell’idea che aver diritto significhi presentarsi come la vittima, come colui o colei che ha subito l’ingiustizia; che sia un modo preferenziale oggi per “aver diritto”, ecco questo potrebbe essere interessante.
Che è quello che accade in altri termini in relazione al rapporto causa-effetto, deterministico e scientifico, oppure addirittura alla non imputabilità legata alla genetica, adesso; c’è tutta una branca della filosofia del diritto e di discipline affini che sta cercando di sbrogliare (o imbrogliare, dipende) questa matassa... ecco. [È uguale.] Sono due strade diverse per arrivare alla stessa situazione di non imputabilità: la via oggettivistica causale e la via, invece di riconoscersi come soggetto di diritto solamente nel momento in cui si è vittima: ci si riconosce nell'autocommiserazione a prescindere dalla verità del torto subito o da quanto possa essere fattualmente accaduto. Nello stesso momento si chiede di essere risarciti. E mi è venuto in mente [tutto ciò], in rapporto a Rousseau, per gli eventi biografici, soprattutto dell’ultimo periodo francese, ai rapporti con Hume e così via. Tutte quelle vicende dove c’era un’azione molto forte di questo tipo, ma allo stesso tempo in lui c’era veramente il bivio fra trasparenza e l’ostacolo… A questo atteggiamento si aggiungeva una chiarezza terrificante nel vedere determinati rapporti umani, determinate possibilità. Però mi sembra proprio il rovescio dell’imputabilità, l’autocommiserazione. Che ho detto paranoica non in senso tecnico, ma forse anche sì.
Mario Ajazzi Mancini
Tutte le volte che c’è qualcuno che subisce qualcosa di tremendo, al primo giornalista che passa dicono tutti: «Voglio giustizia!». Vuoi vendetta. Nessuno vuole giustizia. È questo il risvolto...voglio giustizia! Ti hanno distrutto la famiglia, no non vuoi giustizia, vuoi che quello la paghi!
Eliana Villalta
Che ti paghi. Adesso.
Claudia Furlanetto
Questo “voglio vendetta”, “voglio giustizia”, viene chiamata da Contri querulomania. La questione ha sempre a che fare con il giudizio. Nell’imputazione, nell’esercizio di imputazione se il giudizio viene portato a conclusione vi è già sanzione. Non vi è bisogno della pena, mentre l’amor proprio, l'orgoglio e tutto quello che fa da ostacolo al lavoro dell’imputazione può portare il soggetto in realtà a sospendere il giudizio, a non concluderlo per restare nel risentimento. Anche quando recrimina, anche quando rimprovera, in realtà c’è qualcosa che non va a termine e che va ad alimentare piuttosto la sete di vendetta. Mi viene in mente un racconto di Dürrenmatt La panne[22], dove la giustizia diventa vendetta. Ma ritorno al punto. Nel lavoro di imputazione c’è un lavoro di giudizio, quando questo viene portato a termine, io imputo all’altro l’errore. Questa imputazione diventa anche la sanzione. Non ho bisogno di fargliela pagare.
Mentre, ad esempio nella melanconia, mi attengo a ciò che dice Giacomo Contri, il giudizio non viene portato a termine e il melanconico la fa pagare e la paga contemporaneamente. Nel querulomane il giudizio viene delegato al diritto, all'atto giudiziario, che prende il posto del pensiero.
Volevo ricordarvi la definizione di quello che per me è l’atto psicanalitico: “Non fare alcuna obiezione a che qualcuno si metta nella condizione di fare un esercizio d’imputazione, ovvero di riappropriarsi della sua psicologia”. Questo ha anche a che fare con la questione dell’analisi laica. Cioè come si fa ad autorizzare qualcuno rispetto all'atto di non fare obiezione al fatto che qualcun altro si imputi?
Alberto Zino
Questione etica.
Mario Ajazzi Mancini
Ne fanno tante di obiezioni!
Alberto Zino
Il fatto che Claudia lo formuli così, iniziando la frase in quel modo, vuol dire che di obiezioni ce ne aspettiamo parecchie, in genere. Se la prima raccomandazione è non fare obiezione...
Beatrice Bonato
… ma si potrebbe, così, vedere se c’è un possibile rapporto con l’educazione in tutto questo. Non fare obiezione a che qualcuno s’imputi qualcosa evidentemente va nella via opposta a quella della protezione a tutti i costi nei confronti della gente. Del giovane, non dico solo dei bambini.
Claudia Furlanetto
C’è una pertinenza totale, perché la questione dell’imputazione è innanzi tutto riconoscere all’altro la competenza di pensiero, che è sempre prima rispetto a quella di chiunque altro. Uno dei più grandi errori di Kant è stato quello di aver confuso “minorità” con “minore età”. Perché invece la competenza di giudizio non ha nulla a che fare con l'età o lo sviluppo evolutivo dell’intelligenza. Un bambino sa giudicare e sanziona correttamente, sia quando chiama ad esempio “mamma” la sua maestra buona, sia quando tiene il broncio a qualcuno per un'offesa subita, ovvero sanziona l'altro con una sospensione del rapporto. Della teoria dello sviluppo evolutivo dell'intelligenza possiamo fare a meno in questi nostri discorsi.
Mario Ajazzi Mancini
È una teoria imputabile!
Claudia Furlanetto
È una teoria imputabile di minorità, non del minore, ma dell’adulto. Perché la questione è che nel bambino il giudizio c’è. E fino ad una certa età questo giudizio è chiaro, trasparente, lucido. Dopo, con le teorie presupposte, il bambino comincia a confondersi e lì le cose si fanno faticose per lui rispetto alla possibilità di riappropriarsi del proprio giudizio. Questo può avvenire. Le teorie si accompagnano ad un'offesa, ad un’offesa ricevuta in merito a cosa? Alla competenza del bambino a pensare con la testa propria. Questa diventa una questione educativa fondamentale: non fare obiezione a che qualcuno, soprattutto minore, sappia che la competenza di pensare è sua, il pensiero è suo, la psicologia è sua! Ecco perché è un’aberrazione che esistano delle Facoltà di Psicologia, perché se la psicologia ha un senso, è la psicologia di ciascuno, come sostiene Contri nell'opera Libertà di psicologia. Non è psicologia quella che proponendosi come facoltà universale cala sulle singole psiche i propri modelli.
Mario Ajazzi Mancini
Bisogna stendere un velo pietoso.
Claudia Furlanetto
Sì, siamo stati ingannati su questo, fin da piccoli, ed è il motivo per cui facciamo fatica a riappropriarci di questa competenza di giudizio, a pensare in proprio. A scuola e in casa abbiamo abituato il bambino a chiedere autorizzazione. A chiedere: posso? Sarò abbastanza grande da pensare bene? Ciò inabilita la competenza di pensiero e di iniziativa. Dopo di che vi può essere una correzione, in cui l’adulto (onesto) si offre come aiuto, per correggere, cum-regere il pensiero e il giudizio del minore, restituendogli innanzitutto la sua titolarità. La questione dell’astenersi, nel lavoro analitico, ha a che fare non tanto con il non esserci nella relazione, con la parola etc., quanto appunto nel non far pensare all’altro che il suo pensiero sia nella testa di un altro.
Alberto Zino
Il pensiero si perde sempre nella testa di un altro?
Claudia Furlanetto
Quando una persona è stata abituata a pensarsi seconda rispetto ad un altro, fatica a ritrovare la titolarità del suo pensiero e della sua iniziativa.
Alberto Zino
Questa fatica è forse, almeno in parte, un effetto di un certo tornaconto della sofferenza, che non vuole ritrovare quella titolarità.
Bene, signore, se non ci sono altre cose, credo che ci vedremo presto.
[1] A. Zino, “Seminario di Psicanalisi Critica 2015-2016”, Per la clinica della psicanalisi. 2. Pratica dell’incredibile Cura.
[2] S. Freud, L'Io e l'Es, 1923, OSF , 9, p. 512.
[3] Giacomo B. Contri dopo la laurea in medicina e l'avvicinamento a Jacques Lacan, di cui dal 1974 fino al 1994 ha curato l'edizione italiana delle opere, ha svolto dal 1969 una ricerca di Dottorato presso l'Ecole Pratique des Hautes Etudes con Roger Bastide e Roland Barthes, infine con Robert Lefort, dal titolo Loi positive/Loi Symbolique. Il nucleo principale di questa ricerca è stato raccolto nell'opera Leggi. Ambiti e ragione dell'inconscio, edita da Jaca Book nel 1989. Il contributo originale di Giacomo B. Contri è da ricercare proprio, fin dagli inizi, nell'idea che la psicoanalisi è pensiero giuridico, cioè pensiero costituente (legge positiva) la legge del rapporto del soggetto con gli altri. Un'opera tra le più importanti dopo Leggi, è Il pensiero di natura. Dalla psicoanalisi al pensiero giuridico (Sic Edizioni, Milano 1994). Tra gli scritti di imprescindibile riferimento per il mio lavoro, cito in particolare l'ebook Il beneficio dell'imputabilità (reperibile nel sito dell'Associazione Studium Cartello, comparso nell'opera AA.VV., Anima e paura. Studi in onore di Michele Ranchetti, Quodlibet, Milano 1998). L'elaborazione da parte di Contri del pensiero di Hans Kelsen, articolato con quello di Freud e di Lacan, si trova in una delle sue prime opere: La tolleranza del dolore. Stato, diritto,psicoanalisi, La Salamandra, Milano 1977.
[4] F. Chaumon, Jacques Lacan, la legge, il soggetto, il godimento, a cura di G. Tagliapietra, ETS, Pisa 2014.
[5] AA.VV, Derrida, Blanchot, Kafka, a cura di M. Bellumori, A. Sartini, A. Zino, ETS, Pisa 2016, pp. 18-20 e sgg. Su questo tema è intervenuto di nuovo Alberto Zino in un incontro sulla formazione organizzato dall'Associazione Extimité.
[6] SAP, Società Amici del Pensiero, nuova denominazione dell'associazione già nota come Studium Cartello. Cfr. AA.VV., La città dei malati, v. II, Sic Edizioni, Milano 1995.
[7]F. Chaumon, op. cit., pp. 32-33.
[8]Per una disamina del rapporto tra imputabilità e forme della psicopatologia, nevrosi, psicosi e perversione cfr. La città dei malati, op. cit.
[9]J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 160. Sempre in questo seminario, Jacques Lacan rivolgendosi agli studenti che lo contestavano in nome della “rivoluzione”, ricordò loro che in fisica la rivoluzione attiene a quel moto con cui un oggetto ritorna esattamente al posto in cui era. Questa era la sua idea di rivoluzione, un cambiamento illusorio, perché animato dalla sola idea di superamento, senza imputabilità, si potrebbe aggiungere e quindi sotto il giogo della padronanza. «Vi direi che l'aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, quella di portare, sempre, al discorso del padrone. È ciò di cui l'esperienza ha dato prova. Ciò a cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone. L'avrete», Ibidem, p. 259. Non si tratta di rovesciare lo stato di dominio, ma di imputarselo.
[10]Quando non addirittura rinnegamento. Nella nevrosi talvolta vi è la tentazione di passare alla perversione come soluzione: “sono così in dubbio su quello che l'altro vuole da me che quasi quasi vorrei anch'io essere indifferente alla mia insoddisfazione e al rapporto stesso con l'altro (perversione )”.
[11] I. Kant, Che cos'è l'Illuminismo, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1987, p. 48 (corsivi miei).
[12] Non mi soffermo su alcune critiche al pensiero di Kant, in merito a considerazioni che troviamo nello scritto Che cos'è l'Illuminismo? Mi riferisco, in particolar modo, al concetto di minorità confuso con minore età, e all'uso pubblico e privato della ragione. La questione invece degli effetti perversi sulla libertà dell'imperativo categorico come fondamento della vita morale sono stati ampiamente dibattuti. Il fondamento della vita morale è l'imputabilità, non l'imperativo categorico.
[13] H. Kelsen, «Causalità e imputazione», in Lineamenti di dottrina pura del diritto, tr. di R. Treves, Einaudi, Torino 2000, pp. 207-227. Hans Kelsen (Praga, 1881-Berkeley 1973) è stato giurista e filosofo del diritto, capostipite della dottrina liberal-democratica del diritto su base giuspositivistica. Giacomo Contri ne ha riproposto e valorizzato il pensiero con traduzioni e saggi a lui dedicati, consultabili nell'Archivio del sito di Studium Cartello. La principale opera di Contri in cui viene analizzato il pensiero di Kelsen è La tolleranza del dolore. Stato, diritto, psicoanalisi, La Salamandra, Milano 1977.
[14] H. Kelsen, op. cit., p. 220.
[15] J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 4. Corsivi miei.
[16] B. Bonato, Sospendere la competizione. Un esercizio etico, Mimesis, Milano-Udine 2015, p. 63.
[17] E. Villalta, in Aa. Vv., Animali, uomini e oltre, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 26-7.
[18] AA.VV, Derrida, Blanchot, Kafka tra psicanalisi e filosofia., a cura di M. Bellumori, A. Sartini, A. Zino, ETS, Pisa 2016.
[19] Cfr. Derrida, Blanchot, Kafka tra psicanalisi e filosofia, op. cit.
[20] Cfr. A. Zino, La formazione imparabile (la psicanalisi si forma soltanto da sé), intervento al Seminario “Il trauma e l’oltraggio, la psicanalisi nella società globalizzata”, organizzato dall’Accademia per la Formazione di Padova, 30 aprile 2016.
[21] Cfr. prossimo Quaderno di Edizione, Dall’attestazione al riconoscimento. In ricordo di Paul Ricoeur. A cura di Francesca Scaramuzza.
[22] Friedrich Dürrenmatt, La Panne, una storia ancora possibile, 1956.