Presentazione del libro

Il panico e la sorgente. Psicanalisi, DSM e altre domande,

Edizioni ETS, Pisa 2014,

di Alberto Zino

 

Presso Extimité - Psicanalisi, ricerca, formazione 

Via Fra’ Bartolommeo, 24, 50132 Firenze

 

sabato 19 dicembre 2015

  

 

 

Introduce Nicola Mariotti, psicanalista, psicoterapeuta, psicologo, diplomato alla Scuola di psicoterapia comparata di Firenze (SPC) e poi impiegato - in maniera permanente - nel campo della ricerca e della formazione psicanalitica. Socio fondatore di Extimitè". 

 

Nicola Mariotti - Benvenuti in Extimité, nel covo di Extimité. Oggi siamo con Alberto Zino, che ringraziamo moltissimo per essere qua e anche per aver dato a Extimité l’opportunità di partecipare ai suoi seminari del mercoledì. Sentivo di doverglielo dire.

 Siamo con il testo Il panico e la sorgente. Alberto Zino è psicanalista e scrittore - mi piace che si definisca scrittore -, fondatore di Psicanalisi Critica. Il panico e la sorgente contiene già nel suo titolo quella che è la sua questione fondamentale. I protagonisti sono Pan, il panico, la sorgente, psiche, Eros e altri personaggi. Nel suo fondamento la questione del panico è la questione della sorgente. Nel panico, non si tratta di essere angosciati o traumatizzati ma di essere es-posti, deposti da es. Che succede cioè se la psiche si pensa là dove sorge? Se si intrattiene con l'enigma, con la sfinge che occupa il luogo dove si commettono gli impossibili bios e logos, se si intrattiene nel luogo cui deve forse i natali?Di norma essa risponderà, come Edipo nella tragedia, con tutto ciò che è umano. Risponderà con le parole, con il linguaggio. Ma tale esposizione rimane un rischio costante, benedetto e ben accetto dai poeti. È comunque un rischio costante anche perché la mente degli uomini è organizzata in maniera essenzialmente teleologica; tutta impegnata nella ricerca perpetua di un’origine, causa o risposta, pensiero che possa estinguere la domanda, questo essere di domanda che noi siamo, che possa ricadere sull'essere e tacitarlo una volta per tutte. Ma tale compito è un compito impossibile, di un impossibile della peggior specie, perché nel suo movimento s'imbozzola in una possibilità orfana del suo rapporto con l'impossibile e che dunque ha smarrito l'ombra che la costituisce ed è pertanto silenziosa. In quel posto stiamo, scavando e riscavando la nostra fossa.

 Andiamo ora direttamente alle pagina di apertura de Il panico e la sorgente, dove Zino tratta da vicino la questione spinosa del DSM. In cui parla uno spirito mortifero, in ossequio a questa volontà di controllo, questo tentativo di padroneggiare la questione umana. Lo fa attraverso una serie di griglie, formule, dati senza meraviglia. Si può andare da un dato all’altro senza alcun problema, come li giri la questione è sempre la solita. Il DSM sembra un po’ l’apice di un certo tipo di pensiero occidentale che tende a trattare l’essere umano come un oggetto, per attraversarlo con il suo sapere come si potrebbe fare con un fegato o un osso.

 Questo enorme testo, fatto di formule, dati, assi diagnostici, gruppi, classi di riferimento, dice - dall’alto della grande montagna del pensiero occidentale, le parole che stanno chine all'ombra del desiderio di padronanza. In esso, nel suo discorso,l'uomo è alienato e reso altro, nel caso specifico reso nulla, un nulla stavolta inalienabile, che non permette alcun ulteriore transito: è la morte dei passaggi che si aprono in seno alla parola. Qui sembrano vivere gli uomini del DSM, in queste terre aride e gelate, prive di sentieri. Un cammino nell’abbandono, direbbe Blanchot.

 In questa prima parte Zino, parlando del DSM, ogni tanto inserisce dei passaggi sulla poesia che fanno un po’ riavere.

 In che relazione sta il panico con tutto ciò? Con quello che rappresenta il DSM, che penso sia il prodotto di un’ideologia dominante che tende a nientificare l’essere umano? Scrive Zino che «è il segnale estremo del domandare inesausto, allarme limite tra la vita immiserita e il senso dellamorte», è forse il segnale della crisi a cui le società nate dalla tecnica «ci conducono visibilmente, mettendoci a nudodi fronte al baratro dell’avvenire».

 Il panico appare così come il contraccolpo di questo a-venire, il segno del rifiuto di una produzione d’inconscio. È un po’ il contraccolpo di questo rifiuto e sta lì a testimoniare l'intestimoniabile se non attraverso quell'unico gesto di attacco, questo fuoco che arriva e brucia in un attimo.Si tratta di un’angoscia che non è più angoscia di questo o quello, non attiene più al nostro teatro interiore fatto di conflitti e rimozioni, ma di un angoscia senza oggetto, una vetta d'angoscia in cui tutto si mostra in un attimo. Si rende visibile perché si mostra troppo, ma senza il privilegio di una vista d'altura, perché la vetta è insieme l'abisso, il fondo senza fondo. E si rimane abbagliati, per dirla con Lacan, da questa "overdose di articolazione simbolica”, come davanti a una testa di Medusa che pietrifica lo sguardo; in cui l'unica parola che trova ancora posto è quella che non c’è. Essa si dice assente in questo gesto di attacco.

 Siamo davanti a un resto non simbolizzabile, che non ha alcuna significazione. Siamo davanti a questo immediato, senza possibilità di mediazione.

 Forse a partire da qui è allora possibile pensare la questione dell'analisi, la possibile conduzione di una Cura.

 Per me la parte più affascinante del libro è quella che vira verso la questione del lutto, di un lutto possibile rispetto a questa sorgente. Che ha un avvenire. Può stare qui la possibilità della conduzione di una Cura, in cui non si tratta, come non si è mai trattato, di aggiungere o togliere parole, ne di fare qualcosa o di vedere, ma di ascoltare.

 Freud lo dice: la psicanalisi non è una concezione del mondo, non è un sistema filosofico che offra soluzioni o una dimora stabile in cui l’essere umano possa trovarsi esente dalla domanda o possa sfinirla. Invece, proprio perché ha a che fare con la spinta della morte, la psicanalisi si costituisce come un’etica. Un'etica, dal momento in cui abbiamo a che fare con il Todestrieb, la spinta della morte, la sua domanda, che agisce in silenzio ed è inestinguibile: "oltre il principio di piacere la domanda è a oltranza, è pulsione in atto". E' una faccenda non risolvibile.

 Ascoltare, opporre silenzio al silenzio. Si tratta di prendersi cura di questo movimento in cui da sempre siamo iscritti. Senza volerlo bonificare in alcuna maniera, senza farsi prendere da quell’illusione.

 In un passaggio molto suggestivo Zino descrive gli uomini come delle creature curiose che prima di partire per miti millenari hanno dimenticato di chiudere il cancello alle loro spalle.

 Come chiuderlo? E' possibile? È una situazione che ricorda Kafka. Qui si gioca la partita dell'analisi. Essa, di fronte all'Aperto, suggerisce una fìnta, una finzione - che è anche una commedia. Che rimette le cose al loro posto solo in modo leggermente diverso, assicurando una titolarità al soggetto, un passato, una memoria e un futuro, creando così le condizioni di un racconto. L’analista può essere il custode di tale infondatezza.

 La psicanalisi esula da ogni ragione salvifica come la intendiamo comunemente, nel senso di una cosmesi, di un progressivo adeguamento a un mondo salvo in quanto perfetto, in cui un giorno sarà possibile prendere domicilio. Invece la psicanalisi attiene alla salvezza nei suoi rapporti con l'insalvabile, in quanto possibilità di dire e dire ancora l'oblio, dicendo con esso, per esso, non contro di esso, non per assimilarlo o rigettarlo nelle tenebre. Dirlo di lato, creando le possibilità di un legame.

 Viene in mente appunto Kafka: «il male è il vaso infranto del bene». A questo proposito penso anche a quella tecnica giapponese che consiste, a seguito della caduta di un vaso, nel sottolinearne le fratture con delle pennellate d’oro. Benedire cioè le tracce di un evento, per guadagnare la memoria di una caduta, aprendo così l’oggetto a un “più di vita”. Come se gli desse un passato. Mi sembra pertinente al lavoro in analisi. Lavoro, per l'essere umano sempre esposto all’abisso, da compiere una volta per tutte le volte: un compito infinito.

  

Alberto Zino - Ringrazio Nicola Mariotti per questa breve ma molto densa introduzione. Altre volte non era capitato, né a me né al libro, di venire introdotti in modo così pertinente. Lo ringrazio anche di avermi consegnato nei giorni scorsi la traccia scritta del suo intervento; e questo perché mi sento molto insicuro in questo momento. So bene infatti di essere solo un prestanome se non quasi un usurpatore. Ho chiesto al libro di venire, sapeva di dover essere presente, ma, poiché conosco il libro da molti anni, so anche che non viene mai. Manda sempre qualcuno al suo posto.

 Di solito colui o colei che si pensa possa essere l’autore, oppure altri commentatori o i lettori stessi. Fa sempre così, non ha mai intenzione di apparire, anche se sa di doverlo fare, in altro modo. Se fosse presente qui Jean-Luc Nancy, direbbe che al massimo può com-parire: apparire insieme.

 Forse alla fine ogni libro si fa, si rifà o si disfa e ridisfa, attraverso questo insieme, che è sempre collettivo e mai solo. L’insieme della sua opera, che non è mai finita. Anche per questo l’autore dovrebbe imparare a s(com)parire. Come alcuni di voi sanno, è Maurice Blanchot, accompagnato da Bataille, Foucault o lo stesso Nancy, che suggerisce la domanda di tale com-parizione.

 Una volta scritta, per quanto possibile, la parola fine (gesto terrificante, improprio e denso di con-sequenze), l’autore sa che è la sua morte a implicare o prevedere la vita del libro. Esso comincia a vivere se l’autore se ne va. Allora fa quel che deve, una strada che è la sua e mai la nostra: egli può essere solo «celui qui ne m'accompagnait pas». Già solo da questo nome si comprende quanto la nostra presenza accanto alla sua sia impropria. Siamo stati solo dei prestanome, prestapenna o prestatastiera.

 Da qui viene una discreta euforia, per chi scrive, per chi compone, recita o mette in scena. Per chi opera. Infatti non è vero, come tanti potrebbero pensare, che la scomparsa dell’autore apra a una specie di lutto. Si, siamo prestatori d’opera, ogni volta dove forse, malgrado l’apparenza, non abbiamo scritto, dove non avremmo dovuto essere, siamo al posto del libro che avrebbe dovuto, lui, essere presente qui, tuttavia questo ci affranca. Da una responsabilità.

 Se c’è una cosa che l’esperienza dell’analisi potrebbe almeno proporre, è questo stile. Non è vero che la fine della responsabilità ponga quest’ultima al servizio di un’idea di benessere. Neppure se tale bene stare fosse di tipo tecnico, tecnologico, oggettivistico, una garanzia da DSM. Immagino che sia più attraente (non saprei se più vero, la verità per noi è un motore di finzione), più appassionante, se dopo non tocca a noi essere presenti: essere autori.

 Di volta in volta l’autore è certo il libro, ma soprattutto siete voi.

 Che lo leggete, lo prestate, lo buttate via, ci fate carta per avvolgere dei fiori che avete comprato. Questa dovrebbe essere la vita di un libro, la sua presenza.

 Dovrebbe essere anche la vita di un’analisi: durante e soprattutto dopo. Giustamente Mariotti sottolineava verso la fine del suo discorso un’interrogazione intorno alla temporalità: quanto dura un’analisi? Domanda che compare anche nel libro.

 (Lui, come quasi tutti i suoi simili, riprende le domande da altri libri precedenti e dalle loro interrogazioni. Forse il libro fa questo perché è la sua maniera, nella voce silenziosa della sua com-posizione, per lasciar capire allo scrivente che non sarà mai autore: come potrebbe, se la domanda è sempre di Altri, se la sua origine si origina senza cessare?).

 Domanda che talvolta ci viene rivolta, in quanto analisti, e in un luogo dove reperiamo una certa differenza con la maggior parte delle psicoterapie. Come qualche lettore sa già, il libro critica a volte le psicoterapie. Ma non è per loro in sé. In realtà anch’io, che pure conto meno del libro, ho una discreta stima di loro. Temo tuttavia che la presenza del libro testimoni, anche qui in questa sala, quanto egli ne abbia forse un po’ meno. Ho tentato, nella mia vita brevis di prestanome, di convincerlo ad aumentarla; tuttavia egli ribadisce di non avere simpatia per i loro ordinamenti, giuridici o legali, che finiscono per inserirle nel potere del sistema ideazionale dominante. La presenza del libro non ama che la psicoterapia si complichi la vita, complice del tentativo di inglobare qualcosa che in realtà non è roba sua. Certo, poteva andare diversamente. La psicoterapia poteva schierarsi dalla parte dell’inconscio e della psicanalisi, cui appartiene. Ma non l’ha fatto.

 Il libro non ha molta voglia di parlare di questo argomento, adesso. Lo capisco, quando parliamo di psicanalisi insieme ad altri, quasi sempre andiamo a finire in questa situazione che c’è in Italia. Ameremmo invece tornare alla nostra gioia di parlare insieme, a partire dall’inconscio e dalla psicanalisi, senza avere questo uccello dalle piume nere che aleggia da qualche parte. Spetta anche a noi, soprattutto a noi, disfarcene: per parlare di ciò che ci appassiona.

 Ritorniamo dunque alla domanda: quanto dura un’analisi? Che pone in questione il suo tempo.

 Prima Nicola Mariotti parlava della possibilità di una Cura, «in cui non si tratta, come non si è mai trattato, di aggiungere o togliere parole, ne di fare qualcosa o di vedere, ma di ascoltare». In effetti la nostra preoccupazione non è la cura del sintomo. Questa appartiene al discorso medico, che ha tutte le sue ragioni nell’esercizio della sua pratica, ma non sono le nostre. La psicanalisi non cura il sintomo. Non funziona all’americana, one by one, un sintomo alla volta da risolvere. Mentalità per cui si finisce per creare una medicina per ogni sintomo. La psicanalisi si prende cura della persona. In questo senso il suo futuro riguarda qualcosa che il libro si è sforzato di descrivere: che un’analisi non è come un farmaco, che somministrato dà in cambio degli effetti, secondo le scadenze della sua temporalità prescritta. Un’analisi rilascia i suoi effetti durante tutta una vita.

 Se una persona non va in analisi disposta a cambiare la sua vita senza nemmeno sapere come né forse perché, credo che sia del tutto inutile che ci vada. Se sentite strane queste parole è comprensibile, perché non siamo molto abituati a questo. Siamo usi all’idea che c’è un male, un percorso, un rimedio e una soluzione. L’analisi è tale se costruisce uno stile, un modo di essere. Che significherebbe tra l’altro qualcosa di assai differente da un metodo imposto da altri. Non ho mai trovato un grande vantaggio nell’andare in analisi, nel restarvi e nel portarla forse al suo termine, guidati dall’idea che lo psicanalista sia un dio che si sostituisce agli dei precedenti. Francamente, non vedo un grande progresso in questo caso. Se qualcuno va in crisi in base al suo precedente sistema di riferimento, di oggettività, di concretezza della soluzione, come diceva prima Mariotti, questa mentalità sciagurata per cui l’umano si pensa come una specie di oggetto che deve essere rimesso in piedi, insomma in genere quando una persona fa la fatica di giungere all’analisi, di dei precedenti ne ha già un buon numero, non è il caso di aggiungerne un altro al parterre de rois.

 Il cosiddetto cambiamento, guarigione o cura, ha a che fare con il fatto che non c’è un altro autore che ti cura. Tu sei il problema, il rimorso, la sofferenza o il lutto; ma tu sei la soluzione - per dire meglio: la dissoluzione -. Niente e nessun altro lo è.

 L’analisi avrebbe il compito, panico o meno, di ritornare a una sorta (una sorte) di sorgente. Che sei sempre tu. Trovo volgare che si sia deciso che quasi tutti gli umani da questa parte del globo appartengano a un’oggettivazione. Tendenza per cui occorre una terapia, un farmaco prescrivibile, con effetti sicuri e programmati. Il libro scrive, mi sembra di ricordare, che è per questo che il panico avanza. È stato difficile per il libro non rendersi conto del fatto che le statistiche, la stampa, le opinioni dedicate, continuano a sostenere che il panico è in aumento. Ci possono essere più ragioni, ma temo che una di esse riguardi proprio il fatto che gli umani sono ormai così disattrezzati riguardo alla loro fonte, che questa sorgente non può fare altro che vendicarsi. In fondo la questione è abbastanza semplice. Più tu vivi espellendo il tesoro, ovvero questa specie di sorgente, che significa etica, altro e Altro ancora, più vai ad affrontare la vita spoglio.

 Se volete, è un paradosso. Ciò di cui cerchiamo di disfarci, perché non è concludente, non è risolvente, non è ente, sono proprio le nostre armi migliori.

 Il libro scrive: gli umani sono proprio animali strani, si comportano con le parole come fanno i genitori con una figlia, vorrebbero sbarazzarsene prima possibile, trovarle marito. Forse oggi succede un po’ meno, per fortuna, forse qualcosa è stato fatto.

 A me questa cosa sembra assurda. Ricordo quando tentavo in maniera talvolta astrusa e complicata di parlare con il libro, egli continuava a dire: voi umani siete stupidi, perché volete sbarazzarvi di ciò che avete di più proprio. Come se io libro, diceva, volessi disfarmi delle pagine scritte, anche quelle bianche, i frontespizi, la copertina, i disegni. Voi mandate via le parole e poi pretendereste di vivere bene? Di non essere impanicati?

 Prima Nicola ha citato, anche questo mi ha fatto piacere, i miti millenari. È un po’ di tempo che cerco di mettere le mani nei libri, sperando che poi si scrivano al mio posto. In un tempo che sarà stato presente, sono passati un po’ di anni, ho incontrato quella scrittura straordinaria di René  Char: «A malincuore l’uomo s’allontana dal suo labirinto. I miti millenari lo esortano a non partire». Pensiamo a una persona che entra in analisi con queste parole nella testa; oppure, entra nello studio dell’analista e le vede scritte su un grande cartello. Quando ci si addentra dentro di noi, se possibile nella produzione e riproduzione di un’immagine, di una sede di noi stessi, sempre un po’ vacante, che non si accontenta di un’oggettività realista o di un insieme di soluzioni, davvero miti millenari esorterebbero a non farlo. Eppure, se riusciamo a partire, possiamo affrontare per esempio il panico, l’inizio di una fonte, di una sorgente, di una traversata, e poi il timore relativo alla sensazione che certe costruzioni sono arrivate e si sono effettivamente stabilite, perché non è detto che i risultati siano eventi con cui sempre possiamo fare pace.

 Credo che sia probabile che in tutto questo, nella sua storia, nella sua navigazione, un essere umano non sia destinato a una quiete, una tranquillità come punto di arrivo. Nicola prima parlava di una salvezza differente da una cosmesi. Se vogliamo parlare di “salvezza”, termine che avrebbe anche un’origine nobile, dobbiamo precisare che è un lavoro. Se si esce dall’analisi - non tutti ne escono, c’è gente che ci rimane tutta la vita -, se se ne esce vivi - anche questo ha una certa importanza -, è perché questioni come la salvezza sono divenute (da un certo tempo, nel tempo di un’analisi o una formazione) uno stile che è al lavoro: interminabile.

 È possibile, continuiamo a chiederlo al libro che sarà presente, che il panico sia a un tempo ciò che condanna e segno di ciò che salva? Qui saremmo dalle parti di Hölderlin. È possibile che il panico non abbia nulla a che vedere con una sorta di negatività. Eppure non sembra, essendo il panico la punta più alta dell’angoscia.

  Freud ha l’aria di volerlo dire, quando dopo aver attraversato la trafila delle rappresentazioni dell’angoscia giunge al punto terminale di quest’ultima, che è, forse inaspettatamente, la questione del senza-oggetto.

 Angst non è angoscia di questo o quest’altro, di te o di me. O se lo è, talvolta, non le basta. Non le basta mai. È di più. Ciò che in maniera certo inadeguata ci rappresentiamo come il punto di termine dell’angoscia, il panico, non ha una rappresentazione che lo possa dire. Senza-oggetto, più che mai.

 Il libro ha creduto opportuno scriversi in tre parti. Poi si è divertito chiamando ogni capitolo con le iniziali DSM. La prima parte è effettivamente sul manuale diagnostico e in corso d’opera mi sono accorto di come il libro abbia impiegato meno pagine possibili per togliere terreno alla radice di questo sciagurato evento della nostra storia recente. La seconda parte crea le condizioni per passare, come diceva prima Mariotti, alla possibilità di un racconto. Il libro deve aver pensato che il modo per lui più soddisfacente di fare a pezzi l’ideologia del manuale era quello di distruggerla a colpi di racconti, di narrazioni. Insopportabile, per i Dati Senza Meraviglia; come delle salutari teste d’aglio per un nosferatu.

 Come può il panico in quanto punto d’apice dell’angoscia, guidarci verso un racconto? Proprio lui, che non lo è, che non ha parole? La terza parte cerca di svolgere questo enigma, dopo averlo impostato.

 Leggendo il libro, in alcuni momenti mi sono divertito, soprattutto quando cerca di raccontare a modo suo i momenti in cui una persona si trova nel panico. L’umano è sotto attacco. Questo è tanto più terribile quanto più è senza parole. Il libro racconta di una persona che in analisi non trova le parole per l’attacco. - Dottore, resto nel panico. Ne ho parlato anche la seduta scorsa e quella prima, ma non passa. Non lo prendo, non lo afferro. Niente di me riesce a dirlo. Io mi sento così, ma non posso dire niente di come mi sento -.

 Nell’angoscia, anche la più acuta, c’è ancora una partita in gioco: una parte di me contro un’altra, l’idea di qualcuno contro di me, sono io in lutto per qualcosa che ho commesso. C’è ancora un teatro, anche ridotto, una scena scarna, beckettiana. Il panico è senza scena, un fuori-scena. Due cose mancano, nell’attacco, e non sono da poco: la parola e la morte. Ma come? Il panico mi ha portato fino a qui per farmi morire e poi non mi uccide?

 Ricordo quanto il libro si sia divertito nell’ultima scena. Stanno girando un film. Il libro ha qui un’andatura un po’ tortuosa, non sempre ha voglia di farsi capire, forse come per ricordare al lettore che non può spiegargli sempre tutto. Nel film l’attrice dà corpo e voce a tre personaggi che erano apparsi nelle precedenti pagine del libro, a proposito del panico. Lei è giovane, non è ancora molto nota sui set cinematografici, nella troupe ci sono altri attori più affermati. Ci ha messo l’anima, ha studiato tanto quella parte, perché sapeva, sentiva che l’ultima scena, quella della sua morte, sarebbe stata decisiva, l’avrebbe fatta conoscere a tutto il mondo del cinema. Invece in quell’ultima, straordinaria scena della fine, succede qualcosa che ora non vi dirò neppure sotto tortura (i libri non amano che si dica di loro come finiscono, non vogliono che si sappia dove vanno a finire).

 Ogni persona che ha avuto un attacco di panico lo sa. Che si aspetti la fine per sonno, veglia, squartamento, caduta massi o malattia, la sua morte non va in scena, la fine non c’è. Fateci caso, se vi capita. Con questo non vi invito ad avere attacchi di panico per verificare. Il libro si interroga su questo, si incuriosisce. Mancano la parola e la morte. Che senso ha rispetto alla cura del panico?

 

Mario Ajazzi Mancini - C’è una mancanza della morte, però non manca una rappresentazione della morte. Che differenza c’è tra queste due forme del mancare?

 

 Alberto Zino - Ho l’impressione che sia una questione di tempo. Tempo del verbo. Nell’attacco di panico si dice della morte: nella forma del “se tu farai questo, se ti muoverai, se oserai reagire, morirai”. Viene detto qualcosa della morte, essa viene rappresentata. In genere come una condanna anticipata, garantita. Ma non c’è la scena dell’esecuzione della condanna. Manca il gesto del boia.

 

 Roberto Scianni - Lo sento come un meccanismo quasi fisiologico di provocazione estrema di una reazione virtuosa. È uno scaricamento di destabilizzazione totale dello status quo, per promuovere una vicenda che è un’avventura successiva ignota, come un bisogno di evoluzione drammatica. Quindi ha una virtù in se stessa, una positività che direi animistica. Sua Maestà che proclama l’opportunità di procedere oltre.

 

 Nicola Mariotti - Il re è nudo.

 

 Alberto Zino - Ma perché Sua Maestà l’inconscio dovrebbe mettere in scena la volontà di procedere oltre obbligando il soggetto a questa prova terribile à la Giobbe?

 

 Roberto Scianni - Secondo me per l’importanza drammatica del contenuto evolutivo, che appartiene al soggetto ma anche a un non-autore, come dice lei. Per un’evoluzione progressiva e ignota verso un destino individuale e collettivo che è avventuroso.

 

 Alessandra Sbolci - Scusi, e se fosse un inciampo creato dall’inconscio, quell’inciampo che mi dovrebbe risvegliare?

 

 Federico Fabbri - Stavo ripensando al discorso della morte e della parola. Ho fatto una rilettura per l’ennesima volta di Al di là del principio del piacere e ho perso qualsiasi tipo di coordinata.

 

 Alberto Zino - Questo è il lavoro dei libri.

 

 Federico Fabbri - Mi chiedevo, anche riprendendo la questione della rappresentazione della scena, della mancanza di un teatro o di uno scenario, se nella questione del panico ci fosse un’impossibilità della rappresentazione di ciò che può significare o dare significanza alle pulsioni.

 

 Alberto Zino - Se fosse così?

 

 Federico Fabbri - Renderebbe un po’ la questione dell’autore.

 

 Mario Ajazzi Mancini - Così sarebbe un po’ una grammatica, pensando alle funzioni pulsionali, sarebbe un testo di grammatica.

 

Federico Fabbri - No, in realtà lo pensavo ribaltato…

 

Mario Ajazzi Mancini - La pulsione escrive l’attivo e il passivo, il soggetto e l’oggetto, è la condizione della rappresentazione. La grammatica è un vuoto che si riempie, in qualche modo.

 

Alberto Zino - Grammatica come vuoto è già forse più vicino…

 

Federico Fabbri - È come se ci fosse una ricerca estenuante di grammatica, però la grammatica che è in atto comunque gira a vuoto.

 

Mario Ajazzi Mancini - Si, però mi sembra che ciò che sottolinea Alberto non è tanto quello che si era aperto prima come discorso sull’immediatezza, qualcosache tocca l’immediato nell’eventualità di una mediazione. Insomma, la funzione dell’indicazione, del “questo”, già rende impossibile l’immediato. Quindi è come se tu fossi davvero toccato dall’immediato senza griglie e senza grammatiche, per riprendere un po’ questa immagine.

Mi viene in mente una delle grandi scene per cui tutti hanno empatizzato con l’inizio del Processo di Kafka, quando davvero la minaccia del reale prende la forma di un’accusa, senza un contenuto preciso di questa accusa. E Josef K. non s’impanica, comincia a ricostruire il suo passato, l’uomo senza ricordi e senza passato si sveglia una mattina e trova due che gli mangiano la colazione e gli presentano l’accusa. Che poi sappiamo come va a finire, tutto il libro si sviluppa alla ricerca di un passato. Però lui non s’impanica.

 

Alberto Zino - Avrebbe potuto.

 

Mario Ajazzi Mancini - Si, soprattutto quando il reale assume una figura più minacciosa, la condanna e così via.

 

Nicola Mariotti - Non gli piglia male.

 

Mario Ajazzi Mancini - No, infatti va a corteggiare la signorina Bürstner. L’avvenire del panico è Eros. Mi viene in mente anche Blanchot, quando dice di Hölderlin che ogni suo poema cerca la propria scaturigine. E cita la famosa frase del Reno per cui ogni enigma è puro scaturire, che solo il canto può appena svelare. Ma il modo in cui Hölderlin rende l’idea di questo svelamento fa pensare al fatto che lo svelamento dell’enigma avviene senza parlare, salta fuori all’improvviso, senza preparazione e senza niente ed è però chiamato dal canto, che cerca il suo passato, la sua memoria. Senza Mnemosyne non c’è racconto. Forse possiamo pensare che in questo vuoto di memoria c’è una chiamata al passato, allo scriversi della tua storia. Ciò che non riesce nemmeno a scriversi si chiama alla scrittura.

 

Alberto Zino - Proprio perché l’attacco di panico sembra eliminare alla radice ogni possibilità di parola, di scrittura, di senso, di rappresentazione, di significazione, quel che le persone vengono a dirci è che non c’è una figura: come se fosse l’ultima possibilità dell’ultima possibilità del nulla della rappresentazione. Evidente, lo sappiamo fin dalla notte del tempo, che il soggetto ne sia atterrito. Ma è qui - su questo limite dell’inciampo creato dall’inconscio, come suggeriva prima una persona tra voi, inciampo o caduta che mi dovrebbe destare - che la pratica dell’analisi può lavorare in una maniera diversa, rispetto al farmaco, al DSM, alle psicologie o psicoterapie, e anche rispetto a una psicanalisi troppo ortodossa. Queste istanze, essendo animate da un’idea del bene, da un discorso morale, si pongono fin da subito nel tentativo di circoscrivere questo maledetto tratto di non, di non-rappresentabile, che sembra non avere alcun tratto di passato o di futuro, di progresso, quasi come se venisse isolato nel laboratorio di un dispositivo di terapia. L’analisi non procede in questo modo.

Non si tratta di andare dentro la verità del panico, che non ha verità nel senso di una rappresentazione, non ha a che fare solo con un tessuto storico. Se è vero che il panico è effettivamente l’ultimo a parlare, rispetto all’angoscia o alla questione umana, non può che essere il massimo, la frontiera, della parola senza parola. Impossibile farne racconto, perché ogni forma di rappresentatività è inadeguata a dire la sofferenza indicibile.

Il lavoro analitico qui sposta l’asse, come se accogliesse il panico, accettasse la sospensione di una rappresentatività costitutiva, apre la caduta, lascia andare il lavoro dove il lavoro va. L’analista e l’analisi sono qui agevolati dal fatto che dal 1895 si va, si avanza per libere associazioni. Mai come qui, quando il legame sociale nella parola (che cioè ogni parola inventa la sua socia, la parola altra) sembra inesistente e inesprimibile, si cerca di favorirlo nell’attesa.

Voglio dire che il panico non lo sa, ma lentamente si sta trasformando in un lavoro narrativo.

Alla persona ciò sembrerà vano, la boccia dura del panico è lì e sembra ostruire ogni passaggio. Eppure non c’è altra strada: ricordo che il libro in una certa pagina voleva usare un’espressione che gli piaceva (non ricordo se poi l’ha fatto): l’aggiramento, girare dietro al panico. Ma quest’ultimo è un mastodontico attore che occupa tutta la scena della rappresentabilità e impedisce di andare dietro, in questo backstage interdetto, fatto di bottiglie vuote, assi di legno, lampadine rotte, vestiti smessi affrettatamente, trucchi cominciati. Se si riesce a girare intorno, si cominciano a vedere reperti che saranno certamente altri rispetto alla violenza irrappresentabile del panico o riguardo a quel che credevamo di cercare, ma comunque sono tratti di quella scaturigine di cui prima dicevamo tra Blanchot e Hölderlin: insorgenze di un vuoto di memoria che chiama al passato, nella forma nuova di un “saranno stati”, pezzi della sua storia.

Se l’umano cessasse di inseguire prove e certezze eclatanti e si disponesse a seguire ciò cui Freud dava importanza, minuzie, scorie, resti, rimasugli di vite, di esistenze… Il panico in fondo ci ricorda che dovremmo tornare all’inizio della psicanalisi. Per questo il libro scrive che più il panico si allontana dalla sorgente più cede la speranza. Invece, in analisi qualcosa può agganciarsi come elaborazione (non del panico in sé che è impossibile), anche se è del tutto inconcludente o inappropriato (nulla può essere a misura di ciò che non ha misura).

Se il panico è davvero il punto terminale dell’angoscia in quanto tale, ovvero è il senza-oggetto del senza-oggetto, non ci si può lavorare come si potrebbe con altre formazioni dell’angoscia. Qualcosa si scioglierà, in genere in modo inadeguato e incomprensibile, non rapportabile ad alcun modello. Tuttavia questi isolotti di senso che affiancano la pietra, il bolo, la lastra tombale della significazione, qualcosa diranno. Perché c’è una storia. La storia non ci abbandona mai. Non si tratta di ricostruirla ma di produrne ancora.

 

Roberto Scianni - Sarei tentato di partire per un mito, perché mi rappresento un eroe in un deserto, privo di ogni coordinata, di acqua e di supporti, che si incammina pericolosamente per un attraversamento. Mi sembra una figura nobile, estremizzazione dell’umano che affronta l’inaudito. Quindi, lode al ricercatore.

 

Alberto Zino - Più si riesce a tornare ricercatori, più il panico sarà servito. Credo che la cosa più difficile sia oltrepassare questo senso di morte, di inutilità, qualcosa che sovrasta e che non ha senso di per sé. Ma siamo umani, abituati a essere attraversati da una rappresentazione o rappresentabilità che non ha fine. Né in avanti né all’indietro, perché come suggeriva Ajazzi Mancini, la nostra storia è sempre lì. Sembra che possa sospendersi o arrestarsi, ma non è così.

Qui ritornerei a una domanda che prima abbiamo sfiorato. Perché, nonostante il nostro essere degli esseri storici, che partecipano a questo Altro che è la Storia, ovvero la comunità, il sociale, i rapporti, perché nel panico la storia si sospende? Si ferma senza fermarsi, ma la nostra impressione è che il nostro essere in quanto essere storico sia revocato.

Ci si allontana dalla sorgente, dai resti, rimasugli, avanzi che sono lì, nell’origine infinita della nostra vita rappresentativa. Questa forse prevede che noi ci innamoriamo a sufficienza di ciò che ci rappresentiamo come nostra vita, dimenticando che parte cospicua e di rilievo delle tessere che compongono la nostra vita non è in ciò che rappresentiamo.

In lontananza, la sorgente resta in ombra, al cospetto della luce al neon della padronanza e di ciò che, umoristicamente, chiamiamo “io”. L’analisi avrebbe il compito di togliere sempre più luce ai riflettori, per poter vedere ciò che è coperto dalla “funzione immaginaria” dell’io, come la chiama Lacan. In genere, sono gli io che vengono in analisi. Arrivano lamentandosi: “Dottore, mi aiuti, non governo più, ho perso tutto, non sono più bravo, non domino, dov’è finito il mio potere?”. L’analista, se è tale, è proprio contento. Ma non può, alla terza seduta, recapitare questo strano messaggio a quell’io che ha di fianco, neppure con un piccolo e discreto elogio: “È un buon inizio, signore, che lei sia già un peu moins con!”. Sarà infatti difficile, a quel punto, che l’analisi possa procedere. Però è di questo che si tratta.

Due persone tra voi, Nicola Mariotti e Giulia Lorenzini, dunque del covo di Extimité, hanno avuto con me uno scambio su qualche tema che riguarda la questione del panico nel lavoro con gli adolescenti. Ad esempio: “Attacchi di panico degli adolescenti, che arrivano, o a volte non arrivano, per via di una depersonalizzazione”. Con questa parola in genere si intende vedere se stessi come proiettati in un film, oppure, al giorno d’oggi, su internet. Possiamo mettere insieme questo tratto con un’altra testimonianza, sempre legata agli adolescenti, che “si ritirano nella testa”. Quindi un essere umano si rappresenta come confinato in un angolo del proprio capo, un altro si depersonalizza su YouTube. La persona che scrive questi appunti domanda se non sia lei a essere sfortunata, dato che le capitano casi così difficili.

Penso che non sia una sfortuna. Certo, è una cosa che può capitare a bambini che sono stati abusati: il bambino che ha subito violenza può avere dei momenti, degli attacchi se volete, di depersonalizzazione. Oppure può tentare di ritrarsi, davanti a qualcosa di incommensurabile, in un angolino della propria testa, e rappresentarsi con quel confine, tramite quel nido così precario. Però poi, se lavoriamo con altri adolescenti, ci rendiamo conto che questo succede anche a soggetti non abusati. Mai dimenticare che l’inconscio, creatura dell’irrappresentato e dell’irrappresentabile, proprio per questo può dare corpo di voce e di figura a qualsiasi materiale: lo dice Freud a proposito della materia di cui sono fatti i sogni. Un adolescente si comporta come se avesse subìto violenza, ma in realtà non ne parla. Di nuovo una domanda che abbiamo già incontrato: cos'è che ti chiama verso un panico, se è qualcosa (il libro lo dice) che non è reale?

Poi: ”la depersonalizzazione è la stessa di quella che viene, in un certo senso, indotta da un’analisi?”. In fondo, anche in un'analisi si tratterebbe di togliere terreno a una personalizzazione troppo massiccia, e qui possiamo suggerire una certa differenza, di stampo lacaniano, tra immaginario e simbolico. Una depersonalizzazione immaginaria è qualche cosa che effettivamente può riguardare un sintomo di cui prendersi cura; infatti l'analisi (Lacan lo dice, ma anche Freud, con altre parole) induce a togliere qualcosa al tuo eccesso di personalizzazione. Ciò però dovrebbe avvenire nell'ambito dell'ordine simbolico: togliere, per quanto possibile, terreno a parole, a rappresentazioni di te, che sono troppo massicce, troppo legate al potere e agli esiti dei suoi tratti di identificazione. Si tratta invece di cercare di far avvenire le stesse parole in altro modo, o parole altre. Ecco, da questo punto di vista si può anche dire che si tenta di depersonalizzare una struttura, di renderla meno ‘persona’, nel senso di sottrarla al fantasma dell'autore.

Una cosa abbastanza carina, sempre in questi scambi con i vostri compagni, era anche l'ipotesi che riguarda il tempo: nel panico, effettivamente, c'è la fissità di questo tempo presente. Il panico, nel cosiddetto attacco non ha una temporalità diversa da un presente gonfio e duro. Un attacco di panico non ti dirà mai “sai, ora, per favore, soffri come un cane, perché dieci anni fa non sei riuscito a entrare nel cinema perché c'era troppa gente”... ecco, non funziona in questo modo. Ma ricordavamo in questo scambio che nell'analisi (naturalmente è chiaro che si tratta anche del presente, del passato, del futuro) il tempo analitico sarebbe prevalentemente il più strano dei tempi verbali possibili, il futuro anteriore.

Non è priva di fondamento, questa cosa. Non è tanto "io fui" o "sarò", o "sono", ma è questa incredibile, come si può dire, invenzione della lingua: sarò stato.

Siete bravissimi, tutti noi lo siamo, a rappresentarci in termini di "io sono", "io sarò", "io fui” o anche "sono stato”; ma "sarò stato"? Provate a rappresentarvi voi che sarete stati. Voi "che sarete”, ce la fate, voi "che siete stati" ce la fate, ma "sarete stati"? E qui non saprei, davvero non so come la questione del panico, che appare come luogo di una quasi totale fissità, possa avere a che fare con un "sarò stato". Ho l'impressione di no, da questo punto di vista, mi sembra che il futuro anteriore...

 

Mario Ajazzi Mancini - Come la temporalità della morte; quel che dice Derrida a proposito del Sein-zum-Tode. L’unica possibile temporalità pensabile della morte è l’essere-stato, il “sarò stato”.

 

Alberto Zino - Questo riferimento alla lettura di Derrida dell’essere-per-la-morte di Heidegger è importante per noi. Quel che volevo dire è che il futuro anteriore, in quanto tempo paradossale o paradosso del tempo (tempo poetico) è forse il più adatto al tempo assurdo dell’assenza di tempo che il panico vorrebbe incorporare. Ma va mantenuto il ‘forse’, altrimenti il sistema ideazione dominante, sempre pronto a raccogliere teste mozzate dalla certezza imperante, traduce il tutto in un adattamento linguistico: abbiamo trovato il tempo del panico. Fine del “sarò stato”.

Credo che sia un tempo interminabile e non del tutto rappresentabile. Straordinario Inc, che inventa anche le sue non-rappresentazioni (o rappresentazioni delnon: che gli appartengono). Il fatto che le lingue lo abbiano inventato ha un senso per noi. Se lo abbiamo trovato, vuol dire che abbiamo cercato di descrivere qualcosa che non era riducibile alla sola realtà del passato, del presente o del futuro. Evidentemente, la mente del mitico legislatore delle lingue ha avuto bisogno di qualificare qualcosa con questa paradossale temporalità. Non lo so. Ho l'impressione che questo non possa appartenere al panico nel momento culmine del suo attacco. Potrebbe appartenere al lavoro che il panico può diventare nei termini che dicevamo prima. Tornare verso una sorta di sorgente, quindi verso questo non, questo "fuori" che noi stessi siamo, questa non-padronanza che dovrebbe essere la risorsa delle nostre parole, invece di qualcosa che bisogna combattere per impadronirsene. Qui il futuro anteriore può essere un pericolo per questa fissità, per questa volontà di potere. Quindi non lo vedo molto nel panico, se non nell'atto del suo sciogliersi in qualcos’altro.

Penso che la messa in atto della questione dell’analisi, la sua messa in posa, riguardi anche la sua possibilità di articolare il passaggio dal presente e dal passato a un futuro anteriore, ovvero trasportare, per quanto è possibile, il tempo storico in un tempo altro. Anche qui vi rimando al libro, so che ci tiene.

 

Stefano Mazzei - Io volevo chiedere semplicemente una cosa, a voi e ovviamente anche al libro. Quanto oggi - in particolar modo oggi che c'è una preponderanza delle molte cose, di tutto quello che può essere mostrato, sia attraverso i mezzi di comunicazione che tramite una facilità di rinnovo di cambiamento dei costumi, senza che a volte si possano ancora chiamare costumi, per quanto poi ci si possa anche identificare o appellare a questi mutamenti sociali e di usanze, come costumi - il panico possa avere a che fare con una dimensione narcisistica della persona. E quanto i meccanismi narcisistici, quindi di formazione anche della propria personalità, possano intercedere attraverso il panico, o nel momento del panico.

 

Alberto Zino - Intercedere?

 

Stefano Mazzei - Sì, intercedere. Faccio riferimento anche alla formazione della personalità, nei momenti anche più primitivi, nei momenti in cui si vede un'immagine e si è strutturalmente impreparati ad accogliere quell'immagine unitaria, per esempio. Penso alla fase dello specchio e così via. Quindi, quanto di questi meccanismi strutturalmente costituenti per l'umano possano avere a che fare oggi con il fenomeno di quello che viene comunemente chiamato 'attacco di panico’?

 

Alberto Zino - Credo che una delle migliori trattazioni del panico sia di Freud. Quando ne parla, in effetti, si riferisce con una certa nettezza anche al fatto che il panico è una sorta di, come si può dire?, misconoscimento della funzione sociale: più la persona resta sola e più è esposta a questo. Il libro, rispetto a una storia che accenna, parla del panico come malattia sociale, nel senso della mera sofferenza che riguarda proprio il 'venir meno' di una funzione di alterità. Più il narcisismo come ripiego esistenziale è in atto, più siamo esposti al panico. Perciò dicevamo prima che forse, mai come oggi, la questione del panico è statisticamente in aumento: per via del fatto che di comunità o di funzione dell'altro, di discorso dell'altro, ce n'è sempre meno tra gli umani, e il libro cerca di chiarire, per quanto gli è stato possibile, la correlazione che c'è effettivamente fra queste due cose. Il panico, pur non essendo, al momento del suo attacco, una rappresentabilità nella storia, anzi come ultima rappresentazione sembra proprio fuori dalla storia, nonostante questo pare che sia tanto più probabile quanto più una persona è sola. Nel libro, per esempio, c'è la storia di questa ragazza che si trova in discoteca con gli amici; improvvisamente resta sola (nel mezzo della folla) e viene presa da un violentissimo attacco di panico. Guarda caso, legato al fatto che c'era stata l’improvvisa quanto immediata simbolizzazione di una solitudine, perché si sentiva esposta a una scena senza più essere protetta da un circolo di amici, da un con-essere, da un essere con l'altro. Quindi sì, c'è una correlazione tra narcisismo e panico. Però mi aveva incuriosito la questione dell’”intercessione”…

 

Stefano Mazzei - Sì, l'ho usata proprio con l’intenzione - più o meno conscia in questo caso, un po’ è passato qualcosa di mio - di dire che cede un po' il passo anche a quel che accade in un momento, attraverso la manifestazione del panico. Però che ha a che fare strutturalmente con qualcosa che ci caratterizza umanamente. Penso a quel momento particolare del vedere un qualche cosa che costituzionalmente non ci riguarda, pur guardandoci…

 

Alberto Zino - Cos'è secondo voi questa cosa che costituzionalmente non ci riguarda, pur guardandoci? Cosa vi fa venire in mente? Non vi fate prendere dal panico…

 

Elena De Sanctis - A me viene in mente la morte.

 

Nicola Mariotti - A me subito.

 

Alberto Zino - Anche a lei viene in mente la morte?

 

Nicola Mariotti - Sì, sì, sì.

 

Alberto Zino - E perché non ci riguarda?

 

Elena De Sanctis - Banalmente, perché quando ci sarà lei, non ci sarò io, no? E quindi…

 

Alberto Zino - Allora, se lei non c'è fino a che io ci sono, per quale motivo mi guarda? E come fa? Vorrei sapere…

 

Elena De Sanctis - Mi aspetta…

 

Mario Ajazzi Mancini - Perché solo gli animali hanno il tramonto dietro le spalle.

Poi mi è venuta in mente una cosa, che volevo rilanciare prima: due passaggi che mi si sono un po' associati. Il primo quando dicevi dell’origine, l'inizio, la scaturigine del pensiero freudiano. E il secondo quando raccoglievi quell'intervento sugli adolescenti. Allora, per me l’origine, la scaturigine è sempre stata, come dire, quella dichiarazione radicalissima di Freud che dice: "non credo più ai miei neurotica”. Vuol dire che riconosce il fatto che fondamentalmente l' essere umano è preda della menzogna. Però al di là di ciò vuol dire che comunque sia riconosce che c'è un principio, tra virgolette, perverso, violento o assurdo, che governa la vita psichica indipendentemente da una reazione di testimonianza o dalla sua traduzione in una storia personale. Sapeva bene che molte scene che ti vengono raccontante sono un misto di realtà e fantasia (pensiamo per esempio alla costruzione che Freud fa di concetti come 'scena primaria'...). Quindi è lecito rievocare il dubbio non solo sul racconto, ma anche capire che questo racconto perlopiù è guidato, è impregnato di pre-conscio (direbbe il 'primo' Freud), queste impregnazioni immaginarie che gonfiano il racconto e fanno sì che questo racconto sia il più verosimile possibile. La scoperta è questa, l'origine è questa, cioè che c'è del violento, insomma, o del panicante…

 

Alberto Zino - …Ungeheuer

 

 Mario Ajazzi Mancini - …dello smisurato... Che ne pensi?

 

Alberto Zino - Penso di sì. Proprio mentre ti ascoltavo, sentivo una leggera punta di tristezza, che poi il libro mentre si scriveva, mi trasmetteva. Che veramente finché gli umani pensano di poter vivere (neanche bene, semplice poter vivere) senza panico, senza la questione dell'abisso, del fondo-senza-fondo, diventano sempre più imbecilli, come diceva Aldo Rescio. Non era un insulto. Rescio nominava questa parola proprio nel senso dell’etimo antico, adattandola alla nostra modernità, per cui l'imbecillità consiste nel misconoscimento dell'inconscio, né più e né meno. L'origine per noi non può essere altro che un'origine interrogante. Basta guardare un bambino piccolo! Ancora prima della parola come fonema, c'è nell'umano una ricerca, che direi spasmodica, di altro, di ombra, di non, di chiaro-scuro, di interstizi, di intercessioni. Non è vera, non fa parte della nostra esperienza se non come abbaglio, l'idea che l'umano sia interessato solo e soltanto ai pieni. Ai pieni dimostrati come tali. Noi siamo interessati ai vuoti, ai vuoti parlanti, ai mezzi vuoti, all’aperto. E l’aperto (Hölderlin) è pericolo, è nel pericolo.

 

Mario Ajazzi Mancini - Un nessun luogo senza negazione.

 

Alberto Zino - Questa è per noi la nostra vita, psichica ma anche reale. Dicevo prima che mi dà una punta di tristezza pensare a questa storia del DSM, ma mi sembra necessario come punto di partenza. Una volta, l'anno scorso, sono stato a Torino a parlare di questo libro e qualcuno lo aveva preso per un libro sul DSM. Non lo è o almeno non tutto. Il DSM è il punto di avvio, in quanto sintomo del misconoscimento moderno e dei suoi apparati di potere. Nella nostra mente, nella nostra collettività, è diventato una specie di feticcio, che il libro era interessato a smontare per andare altrove. L'origine per noi è attacco ineliminabile, interrogante; e resta tale. Per questo i libri parlano di un’origine infinita, che non cessa. È chiaro che non intendiamo il giorno della nascita, oppure che quando avevamo sei mesi eravamo diversi da quando poi abbiamo avuto sei anni; ovvio che è differente, ma l’origine come interrogazione, come questione dell'inconscio, non finirà mai; e fermarla con l'idea che sia qualche cosa di cui si può fare a meno, che si può sostituire come tutti gli elementi nell’incantesimo della certezza, credo che sia la nostra follia.

Non sono l’unico a pensarlo. Non mi sembra un pensiero tanto originale. Credo che continui ad essere un pensiero per cui vale a pena lottare. Se non altro per il fatto sociale che il DSM ha raggiunto la quinta edizione finanziato dalle case farmaceutiche di tutto il mondo, perché in realtà è un prontuario, serve a vendere farmaci. Andate a vedere quella trasmissione televisiva di cui il libro dice al paragrafo che si chiama "Una notte d’estate”. Si trova tuttora nelle teche Rai, in rete esiste anche la trascrizione di quella trasmissione. Come scrive il libro, se proiettiamo di nuovo questa trasmissione a Psicanalisi Critica, la gente ancora ne sarebbe angosciata, perché si vede come tutto quell'apparato serve solo a vendere prodotti, che non sono cioccolatini ma farmaci. Noi siamo diventati sempre più cavie di questo modo di essere, il libro si interessa al Denkweise, al modo di pensare che il DSM produce e riproduce. Questo squallida ideologia, che facciamo fatica a chiamare pensiero, è tale per cui, al fine di dare da mangiare milionario a qualche casa farmaceutica, noi siamo costretti, tutti, a diventare questa roba. Ma, ripeto, non è tanto questo che ci indigna, quanto il fatto che poi diventi un modo di pensare, per essere dei sudditi tranquilli e sedati. È questa la tragedia, rispetto a ciò di cui stiamo parlando. Fosse soltanto una questione di profitto di alcuni a scapito di qualche miliardo di esseri umani, si può invocare, che so, un'azione culturale che sensibilizzasse e un’azione legale che ponesse in relazione qualche milione di dollari con l’idea che alla bisogna esistono ancora le galere. Non è solo una questione di aziende farmaceutiche.

Tra l’altro, la Eli Lilly, la casa che produce Prozac, Paxil, cioè la hit parade degli psicofarmaci, non so se lo sapete, è a Sesto Fiorentino, vicino a noi. Comunque, oltre al denaro e al mercato, si tratta di altro: di un sistema ideazionale, un Denkweise che da tempo fa scelte precise e mirate, non precisamente in nostro favore. Mi viene in mente la televisione, dove spesso vediamo la pubblicità dell'Agenzia del Farmaco, ovvero il Ministero cosiddetto della Salute. Ce n'è una in questo periodo, in questi mesi, che è aberrante, nella sua induzione di senso di colpa. Contro le donne, tanto per fare una cosa nuova. Si rivolge direttamente alle donne incinte, alle future madri, e dice loro di curarsi, di prendere tutti i farmaci, perché potranno poi servire a tuo figlio… se non ti curi come madre, poi chi metti al mondo? stai attenta, pensaci…

 

Lorenzo Franchi - mi interessava il discorso sull'azienda farmaceutica, perché credo che abbia superato il piano della realtà. Ormai ce l'abbiamo singolarmente in testa, ognuno di noi, un'azienda farmaceutica... E questo, un po', anche per legarsi al discorso del futuro anteriore, è straordinario: non l'avevo mai pensato, quindi grazie per l’immagine. È una meravigliosa scorciatoia illusoria quella di poter ritrovarsi, ognuno con la sua fabbrica di farmaci dentro la testa, a fingere di testimoniare di essere in un futuro anteriore.

 

Alberto Zino - Fingere di testimoniare…

 

Mario Ajazzi Mancini - Quando sarò guarito. Che non sei guarito. Quando sarò guarito.

 

Nicola Mariotti - Meglio essere cavie dell'origine…

 

Alberto Zino - Gli umani caviano, purtroppo. La differenza è tra chi se rende conto e chi no.

 

Mario Ajazzi Mancini - Mi veniva in mente Giorgio Colli, che dice che la prima risposta all'origine è la sapienza, e quindi è un insegnamento. La forma sapienzale non è certo quella del dominio dell’esistente. Anzi, è più qualcosa che riguarda l'antica armonia.

 

Alberto Zino - Mi fa piacere che hai ricordato Giorgio Colli, in questi giorni sarò a Roma e vedrò Christine dal Bon, psicanalista con cui stiamo progettando da un certo tempo un lavoro su Eraclito e Lacan. Sarà una sorpresa, lo presenteremo qui a Firenze i primi mesi del prossimo anno. Potremo incrociare una nuova proposta di traduzione dei frammenti di Eraclito con quella di Giorgio Colli, che è sicuramente la migliore, comunque la più suggestiva per noi. E mi piacerebbe anche legare il lavoro alla traduzione che Lacan fece di Logos di Heidegger dal tedesco al francese. Spero insomma che verrà messo in piedi un buon lavoro.

Giorgio Colli è stato un grande professore di Filosofia Antica, morto a Fiesole nel 1979. Ho avuto la fortuna di averlo tra i miei maestri all’Università di Pisa (insieme a Gargani, Badaloni, Bodei, Cristofolini, era difficile non amare la filosofia in quel tempo). Ha lasciato un'impronta, non solo interpretativa, sulla lettura dei testi antichi (Parmenide, Zenone, Gorgia, Eraclito) ma anche un modo di pensare che era, per così dire, compendiato nel titolo di uno dei suoi libri, La ragione errabonda. In effetti rende un po' l'idea di quello che noi siamo o che vorremmo tentare di essere, di produrre. Il senso di una ragione che è costitutivamente nell’erranza, che non è qualcosa che possa essere sciolto intellettualmente, come strumento, magari fintamente gradevole. Lo dico anche per ricollegarmi a quello che dicevamo prima su questa origine intrattabile e infinita.

 

Matteo Bellumori - In riferimento alla questione che diceva prima anche Ajazzi Mancini, e pensando all'origine della psicanalisi, mi piace ricordare che Lacan pensa il “sogno dell’iniezione di Irma” come inaugurale della psicanalisi. Sentendo trattare la questione del sintomo e la questione dell'inconscio, mi pongo sempre il problema di quanto si rischi di fallicizzare l'inconscio. Di renderlo quel supporto fallico per riuscire a sostenere in qualche modo, in maniera rocambolesca, l'inconsistenza del grande Altro, l'inconsistenza del simbolico. Come se si assegnasse all'inconscio una sorta di vita privata e la possibilità di un più di sapere che mi è sottratto, e quindi, quasi in maniera agnostica, basta affidarsi all'inconscio, come se dovessi indebolire la mia coscienza, e mi affido a un più di sapere che sa il mio bene. Questa è una forma di consolazione, il moralismo è in qualche modo sempre in atto - per questo parlo di gnosticismo -, come se fosse possibile liberarsi da quella zavorra indicibile di un puro negativo. È quello che dicevo del sogno di Irma, perché ciò che mi affascina di questo sogno inaugurale è cosa in fondo viene in qualche modo esposto?

 

Alberto Zino - Qual è il punto di enigma?

 

Matteo Bellumori - Ciò che si mostra e che non può essere detto e nel non dire si mostra, al centro del sogno. Questa che Lacan appunto dice “il rovescio della carne”, quel 'tu sei questo', il più lontano da te, che sembra quel punto, quell'anello mancante in cui prolificano sia l’identificazione che l'immaginario, passandoci attraverso fino a ridisintegrarsi. Cioè quella sorta di limite inattraversabile che è quel puro negativo - che ora anch'io, come diceva Fabbri, non so bene come riformulare - che non può essere semplicemente rimesso in circolo, all'interno, come dire, sia della struttura linguistica, delle rappresentazioni del soggetto, come se dal negativo si potessero fare delle forme di negazione che permettano di riarticolare il discorso. È qualcosa che non può rientrare in un principio di economia. È l'ineconomico per eccellenza che resta tale.

 

Nicola Mariotti - Non domestico.

 

 Alberto Zino - Sì, d’accordo.

 

Stefano Mazzei - Se penso all’ineconomico nel discorso contemporaneo, penso che ci assilliamo tremendamente affinché ogni cambiamento che noi possiamo pensare dell'altro, ma di noi stessi in primis, sia un cambiamento senza sintomi. Quindi tutte le volte che ci troviamo, o proviamo, per così dire o per dirlo profanamente, a cambiare qualcosa nella nostra vita, la prospettiva spesso è quella di avere un cambiamento dove il sintomo non ci sarà mai più. Quindi l'ineconomico, oggi come oggi, nella contemporaneità di oggi, risuona molto in questo frangente, laddove c'è questa spinta di conoscenza che vorrebbe forzatamente togliere il sintomo - qualsiasi esso sia, anche nelle sue riamalgame - dai cambiamenti.

 

Matteo Bellumori - Torno sempre alla questione del bene, si tratta di riuscire in qualche modo a giocare; e qui veramente per me c'è qualcosa che è lo scandalo della posizione etica del soggetto analitico. Il fatto, molto banalmente, che tutto non può rientrare in un regime di senso. In quanto posizione etica d'analisi, non si può promettere il senso.

 

Alberto Zino - Ma no, assolutamente.

 

 Matteo Bellumori - Quindi qualsiasi cosa accade è, come tutto, volto allo scopo, compreso il panico. Non è che accade perché ha uno scopo, nell'economia appunto morale del bene del soggetto, è un evento. È un evento che potremmo definire strutturale, impersonale

 

Alberto Zino - Quindi di nuovo la questione del senza-autore?

 

Matteo Bellumori - Sì.

 

Alberto Zino - Il senza-autore (è per questo che siamo qui, poiché sarà presente il libro e non l’autore) non è riducibile a un giudizio di valore. Senza-autore non è una questione appaesabile in qualcosa di democratico. Se con questa parola intendiamo che sia possibile darne una ragione comune e condivisa una volta per tutte. La democrazia, come dico, allo stesso modo della libertà e della psicanalisi, è un lavoro. La questione del senza-autore riguarda una sorta di modalità, che non sapendo come altro chiamarla la diciamo dell'inconscio in quanto tale, che vuol dire dell'inconscio in quanto Altro. Inc ha sempre a che fare con una dimensione di alterità, è sua la passione dell’Altro. Rammento una cosa di parecchi anni fa, non ricordo l’autore. Era la novella di un uomo che non aveva più l’inconscio, aveva avuto un incidente e per tenerlo in vita gli avevano asportato l’inconscio. Quindi non aveva più memoria, non aveva più futuro, non aveva più passato, niente, gli era rimasta solo l’automobile. Si era massacrato nell’incidente, l'auto invece non s'era fatta niente; rovesciando la meccanica reale dei sinistri, l’illesa era lei. Allora lui, che non aveva più niente se non questo dispositivo, viveva nell’illesa, e questa era la sua vita. Era contenuto, in questo modo.

Questo spunto può far pensare come la questione del senza-autore non sia riducibile al fatto che ti sei spogliato di tutto, hai perso tutto, compreso l'inconscio e non so quant'altro, e quindi non sei più autore di niente perché non hai più niente. Non è di questo che si tratta.

Altro esempio. Tra analisti si può dare giustamente una sorta di comunità (a Psicanalisi Critica diciamo “comunità senza comunità”). Modi di stare insieme in cui si fa altro, facendo altro si costruiscono delle cose. Potrebbe sembrare che il senza-autore fosse realizzato, per il fatto che l'autore gira. Prima è autore il soggetto A, poi B, poi C. Penso che sia uno stile di alto livello. Ma bisogna vedere se mettere insieme le identità ha il fine di eludere la questione dell’inconscio; o se invece è effetto di un confronto serrato e continuo con la questione dell'inconscio, cioè di quel senza-autore che una comunità psicanalitica avrebbe il dovere (e il piacere) etico di produrre e riprodurre come stile collettivo. Tratto decisivo per la formazione dello psicanalista, naturalmente.

Infatti, in analisi il panico non si affronta rigonfiando l’io del soggetto di robuste iniezioni di autore-padrone, ma all’opposto: anche se non possiamo costringere l’analizzante a bere, possiamo portarlo fino alla sorgente. Del suo senza-autore.

Anche per questo, ora siamo alla fine del nostro incontro. Leggo un frammento dal libro.

In realtà è una procedura abbastanza ignobile; il libro ha disposto, per celebrare il suo futuro anteriore, il suo sarà stato presente, che io venissi al suo posto, obbligandomi però a leggere un passo suo. Prima uccide l’autore per restare solo lui, poi però lo chiama a leggere, ma si può?

Comunque, gli porterò il vostro saluto.

 

E sia dunque il capitolo terzo, pagina 104, frammento 24, “Parlare al futuro”:

«Lo psicanalista non avrà il compito di risolvere una mancanza di rappresentazione, favorirà nell’analizzante l’avvento di una possibilità di parola da rivolgere al panico. Nella notte dell’attacco, nella resa dei pensieri, c’è una sola cosa da imparare.

L’analizzante sarà come un bambino nel buio. Parlerà, lascerà da parte la pietra enorme del panico silenzioso, farà con l’analisi quel dialogo che con il panico era interdetto, si allenerà alle parole in forma di silenzio, l’analista farà da esca, prenderà le sembianze della pietra panica, insieme i due simuleranno una verità. Non la sapranno mai tutta né intera, si smonterà in piccole parti, lasceranno che sia vera quella verità, verosimile almeno un po’.

Così, nella notte del senso, inizierà a uscire dalla sorgente del senso insperato, non sarà più masso chiuso da secoli, ma succo di parole. Poi l’esitazione: ma sarà vero? Saranno proprio le parole giuste, le chiavi di casa, della casa del padre? Non si sa, forse non si saprà mai, ma se seguirai la sorgente da qualche parte ti porterà. Sarà la casa che cercavi o forse un’altra, del tutto nuova, di cui non sapevi e non avresti mai detto. La sorgente ha un avvenire.

L’analista avrà fatto la sua formazione, che lo avrà portato avanti.

Per l'angoscia non ci vogliono risposte. L’inconscio non manca di nulla, non è un ente da correggere o da educare. L’inconscio manca di rappresentazione definitiva perché è domanda.

Un analizzante, dopo l’attacco, è come un bambino che si è svegliato la notte di soprassalto. Che lo chiami panico, crisi d’angoscia o pavor nocturnus, l’analista avrà imparato che etica vorrebbe che non ci si fermasse al lenimento. L’analista avrà saputo che la parola salva in quel momento dal vuoto ma a un tempo il vuoto resta parlante. La parola stessa può funzionare da evitamento nei suoi confronti, da tappo, togliendo la sua qualità di “parlante”. La parola ha sempre un doppio taglio. Lenisce e salva, ma condanna alla tentazione del delirio di onnipotenza. Di questo grumo il panico avverte, l’analista ne sarà stato avvertito.

La psicanalista avrà appreso sulla pelle della sua formazione che il panico è il simbolo che tiene il luogo di un’assenza, non come contrario della presenza, ma segno della coappartenenza di ambedue. Qualcosa si è dato o forse si è sottratto. La psicanalista avrà sperimentato che un simbolo di assenza, un tempo del non, è necessario. Non si potrà scegliere di farne a meno, non meno di quanto l’analista potrà cercare di cancellarlo o di risparmiarlo all’analizzante.

La Cura pone molta attenzione nella propria capacità di far valere la mancanza. La Cura non va nel panico di fronte a un panico. Non lo aspetta, ma non è ospite che malvolentieri la Cura fa entrare nella sua casa.

La psicanalista avrà imparato che sarà la Cura ad abitare la sua casa (lo studio, il divano, i fiori) durante il tempo delle sedute e delle analisi. Saprà che gli oggetti della sua casa, non solo quelli materiali come i libri o i ritratti, saranno interrogati, soppesati, valutati dall’analizzante per accertarsi che gli possano essere un giorno utili nel tentativo di riparare la mancanza. Non vi dovrà essere innocenza in quegli oggetti, secondo l’analizzante dovranno essere complici o nemici. Da tanto dura il dominio della sfida e della colpa tra gli umani. L’analista non farà parte di questa numerosa schiatta. Si sarà formata a stare un passo indietro rispetto ai diluvi di identificazioni massicce che investono la vita comune e per questo sarà una preda ambita doppiamente: perché è una psicanalista e una donna, due generi di vita cui non si perdona la libertà».

 

Grazie. A Extimité e a tutti voi.

 

 

 

 


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