NOUVELLES HISTOIRES DE FANTÔMES, Palais de Tokyo, Parigi
Dal 14/02/2014 al 07/09/2014
Da poche ore il Palais de Tokyo di Parigi è stato disinfestato dai fantasmi che lo storico dell’arte francese Georges Didi-Hubermann e l’artista austriaco Arno Gisinger hanno evocato qualche mese nel giorno “degli” amanti. D’amore si tratta, infatti, in un certo senso. In uno specifico, e anacronistico, senso dell’amore: quello che nasce, e sopravvive, come amicizia, e che trova la propria linfa nella passione per la comprensione.
L’amicizia tra due ricercatori nostri contemporanei, la comune ammirazione per due grandi intellettuali del secolo scorso, un quadrangolo (platonicamente) amoroso caratterizzato dall’ambizione - rara, oggigiorno – di creare uno scenario pedagogico che non rinunci alla creatività. Il segno particolare che Nouvelles histoires de fantômes immette nel contesto espositivo contemporaneo sta innanzitutto in questo: l’“esposizione” è in primo luogo un omaggio, un gesto di ringraziamento nei confronti di due uomini e delle loro scoperte, delle loro invenzioni. Forse, non si può nemmeno parlare di esposizione nell’accezione comune del termine. Cos’è stato Nouvelles histoires de fantomes? O meglio, che cosa ha esposto? Se fantasmi ce ne sono stati, è solo dopo il loro passaggio, che espone il presente alla sua natura composita, frastagliata, abitata dal passato ma invasa d’avvenire, che è possibile raccontare la loro storia.
Intanto, è bene precisare che è il lavoro intellettuale di un uomo ad essere omaggiato attraverso il tentativo di renderlo visibile: si tratta, in prima istanza, di un’operazione commemorativa nei confronti dello storico dell’arte Aby Warburg (Amburgo, 13 giugno 1866 – Amburgo, 26 ottobre 1929) e, in pari tempo, di un’esperienza interattiva ispirata (d)all’atlante figurativo Mnemosyne1di sua invenzione. Questo percorso espositivo ha voluto, simultaneamente, esporre un pensiero e renderlo accessibile allo sguardo. Ciò è stato reso possibile focalizzando l’attenzione su quest’opera lasciata incompiuta da Warburg - Mnemosyne appunto – ed offrendone una versione, per così dire, aggiornata: l’album cartaceo con le sue tavole ha lasciato il posto ad un collage filmico, mentre la biblioteca privata dello studioso è stata sostituita da una sala museale aperta a tutti.
L’eccentricità dell’esposizione è coerente con la posizione sui generis dei suoi due autori, i quali sarebbe erroneo, o meglio riduttivo, identificare con l’etichetta di “artisti”: entrambi insegnanti e storici dell’arte, Georges Didi-Hubermann e Arno Gisinger appaiono come i “creatori” di un teatro in-stabile in cui ad andare in scena è la vita (la potenza euristica) di un pensiero (la «scienza senza nome» teorizzata da Aby Warburg2). I due, collaborando, testimoniano della loro amicizia, che, a sua volta, si fonda sulla vicinanza degli interessi filosofici. Ciò detto, i due si confrontano l’uno con l’altro attraverso l’uso di mezzi d’espressione diversi, i quali giustificano la scelta di sdoppiare l’esposizione in due parti, l’una filmica, l’altra fotografica. Nouvelles histoires de fantômes costituisce, infatti, il terzo atto di un esperimento che Didi-Hubermann aveva già presentato – in solitaria - al museo Reina Sofia di Madrid nel 2010 (Atlas. ¿Cómo llevar el mundo a cuestas?) e al Fresnoy di Tourcoing nel 2012 (Histoires de fantômes pour grandes personnes). Lo storico dell’arte francese, impegnato ad ereditare e glossare le ricerche warburghiane, ha scelto questa volta la planche numero 42 dell’album Mnemosyne3 e, altra novità, ha chiamato a partecipare Arno Gisinger nel ruolo di fotografo.
La tavola 42 del non-finito lavoro iconologico è dedicata alla lamentazione funebre, al compianto, cioè al dolore come esperienza collettiva; in quel foglio dell’atlante Warburg aveva riunito immagini di opere d’arte che rappresentano l’esperienza del piangere-con-qualcuno. Al Palais de Tokyo, la riproduzione fotografica della planche originale era stata posta sulla parete d’ingresso della sala: essa donava l’accesso, fisico e concettuale, alla galleria video-fotografica. Andrea del Verrocchio, Scena di compianto per la morte di Francesca Tornabuoni, Luca Signorelli, Compianto sul Cristo morto, Andrea Mantegna, Deposizione di Cristo, Donatello, Deposizione dalla croce, Cosmè Tura, Pietà, e altre 13 fotografie di altrettante opere d’arte comparivano l’una dopo l’altra, lentamente, riprese in un bianco e nero, silenzioso e affascinato.
Non si tratta di “spiegare” il pensiero di Warburg: Didi-Hubermann e l’amico Gisinger sembravano voler suggerire, al contrario, che l’atto del guardare è già un modo di comprendere che non ha bisogno di ricorrere a parole o a didascalie. Lo sguardo, detto altrimenti, sarebbe in grado di prendere con sé la visione: la rispetta, la ri-guarda ancora, la comprende. Questa mise au jour del Bilderatlas warburghiano assume le sembianze di un duplice omaggio perché, con Gisinger, è anche la presenza di Jacob Burckhardt (Basilea, 25 maggio 1818 – Basilea, 8 agosto 1897) ad essere evocata. Gli studi dello storico tedesco (La civiltà del Rinascimento in Italia del 1860, solo per citare il più importante) costituirono, infatti, uno dei punti di riferimento per le ricerche dell’inventore dell’iconologia Warburg; qui, essi diventano il soggetto d’ispirazione per la serie di fotografie di Gisinger, il quale le ha riprodotte in grande formato e le ha affisse sulle pareti di una delle innumerevoli ali del “palazzo giapponese”.
Il titolo di quest’evento rievoca le “storie di fantasmi per adulti” , ovvero la definizione da Aby Warburg alla storia dell’arte moderna (rinascimentale) in quanto costellata dalle tracce di quella antica (greco-romana). Didi-Hubermann ha dato spazio a questa prospettiva: ha allestito una stanza di fantasmi che mette in atto la lezione warburghina, ossia tenta di lasciar sortire dalle immagini del nostro tempo presente le reminiscenze del passato. Per restare fedeli al dizionario dell’iconologia si dovrebbe precisare che “fantasma” (survivance, traduce Didi-Hubermann) è ciò che in tedesco rientra nell’ordine del Nachleben, un qualcosa o un qualcuno che sopravvive alla sua stessa sparizione, nel senso che, prima o poi, ricompare, e ciò, ogni volta, facendosi ricordare senza rendersi riconoscibile. La sala in cui tutto ciò è evocato era immersa in una semioscurità, le luci provenivano dal pavimento: un’atmosfera adatta all’irruzione di presenze spettrali… A generare questa luce mobile, instabile, appena sufficiente per osservare la galleria fotografica concepita di Gisinger ed affissa alle pareti intorno, sono i 23 frammenti di opere visive estrapolati da Didi-Hubermann da film e documentari di genere ed epoca diversi. Vegliati dalle fotografie che si ergono come in una sorta di gigantomachia, le immagini in movimento si srotolano in orizzontale, facendo baluginare il suolo e trasformandolo in uno schermo. Intervento efficace e d’impatto: a guidare lo spettatore nell’esplorazione della sala non sono le tipiche luci fisse o i faretti che “attaccano” le opere al muro, bensì un insieme fluttuante di luminosità diffusa, ondivaga perché costantemente sempre diversa per intensità e per durata. Sono le immagini in movimento, sono i film, a fare luce alle fotografie. Questa peculiare illuminazione non si dava senza aggiungere nell’atmosfera circostante anche i suoni, i colori e le parole che ogni estratto video portava con sé: i film abitavano la sala, urtando, provocando, stupendo, deludendo, confondendo. Le immagini filmiche, stese a terra, illuminavano quelle statiche, tutt’uno con le pareti, che ne rappresentano il contrappunto non solo estetico ma anche speculativo: in basso, l’omaggio a Warburg, alla spettralità dell’arte, ai lati, il tributo a Burckhardt, alla conflittuale relazione tra l’uomo e la storia.
A terra, dunque, vi erano una pluralità di personaggi, di voci, di volti, di parole che emergevano come un popolo sconnesso dai 23 filmati; tutt’intorno, un muro fotografico che mostrava una serie di situazioni di un’impersonalità e di una freddezza al limite dell’“inespressività”. Una volta oltrepassata il video della planche 42 in ingresso, e dopo aver salito alcuni gradini, il visitatore poteva osservare dall’alto i fotogrammi in movimento, non sapendo su quale sostare più a lungo né quale ordine di visione adottare per carpire il senso dell’esposizione. La qualità delle immagini variava totalmente, così come il ritmo di una lingua, il tono della musica, la tipologia dei costumi, persino la veridicità del filmato era esplicitamente percepibile in alcuni film e non in altri che invece davano subito l’impressione di essere la trascrizione di favole e leggende antichissime. Ciò che si ripeteva senza sosta erano le scene dei lamenti, le lacrime, i cortei funebri, in una parola i gesti che accompagnano il rituale del compianto: questo accomunava tutti i filmati proiettati al suolo. Sebbene la mancanza di omogeneità inducesse la vista a smarrirsi in questo atlante filmico, la partecipazione emotiva era ormai già implicata, la sensibilità già compromessa dall’inclinazione dello sguardo che, per vedere, si era dovuto spingere oltre la balaustra posta al di sopra del pavimento-schermo. Lo spettatore si trovava già nel posto di colui che, in piedi, in alto, si sporge verso l’altro o gli altri sdraiati a terra, immobili e esangui, destinati per sempre all’orizzontalità: il ruolo di colui che porta, con altri, il lutto. Quando le immagini prendono posizione4, può succedere che si sdraino come morti da compiangere, come i cadaveri che, in modo ogni volta diverso, i filmati mettono in scena: i film scelti da Didi-Hubermann prendono il posto non solo delle immagini selezionate da Warburg, ma, per la costruzione della scena, si sostituiscono al corpo compianto rappresentato nelle scene della planche 42.
A “contenere” questa mise en scène era il muro fotografico che mostra collages di altrefotografie, quadri in procinto di essere spediti in busta chiusa, scaffali d’archivio, proiettori, libri in vetrina, carnets e fogli di appunti, oggetti nei confronti dei quali è non è possibile stringere un rapporto di tipo emozionale. Gisinger ha seguito l’allestimento di un’altra esposizione, composta di opere di diversa natura per tre settimane, e qui propone il suo reportage. Le immagini, disposte senza alcun ordine cronologico o tematico, decostruiscono la storia di un allestimento di un’esposizione5. Il dialogo che si genera tra queste e i filmati, non è soltanto quello tra movimento/stasi (tempo del film vs. spazio della fotografia) ma anche, e soprattutto, quello tematico: i film spingono lo sguardo verso il basso, verso l’immedesimazione del visitatore nel ruolo di chi si sporge sul corpo del morto per piangerne la perdita, mentre le fotografie aiutano a organizzare il pathos, se così posso dire, spogliandolo di ogni patetismo, circoscrivendo l’esperienza nel dominio della storia delle immagini e della loro es-posizione.
Incontrare un’immagine vuol dire considerarne la sua dimensione fantasmatica, il suo essere composta di strati temporali diversi, condizione che la rende capace di abitare nella storia degli uomini in modo assolutamente anacronistico. La grande intuizione di Warburg è che ogni immagine prevede il futuro e custodisce il passato, restando ancorata all’istante presente grazie alla sua capacità di entrare in uno sguardo. Ma i fantasmi che vi si annidano possono spaventare, decretando la chiusura degli occhi e invitando addirittura ad un totalitarismo della cecità. Decostruire l’esposizione delle immagini diventa una maniera per rendere sopportabile l’incontro con i fantasmi senza condannarne la natura inquietante, senza impedirne l’arrivo commuovente. Qui, es-porre è fare-uscire le immagini, non solo dall’opera in cui sono nate, ma anche dal tempo specifico in cui sono apparse. Esporre l’arte significa allora far uscire i fantasmi che ne sono i reali protagonisti, portarli tra gli uomini in un “fuori” dove nessun osservatore può dire “io” ma dove tutti possono commuoversi, l’uno accanto all’altro. Sembra che il potere delle immagini, una volta interrogate le loro survivances, sia quello di esprimere il legame tra l’essere-insieme e il sentire-insieme. È Didi-Hubermann a confermarlo, citando Deleuze che lo ha ispirato: “l’emotion ne dit pas je”6. Una nuova politica dell’immagine passa certamente attraverso una nuova politica dell’esposizione.
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1 Sul sito engramma.it si trova la riproduzione dell’atlante con relativa interpretazione di ogni tavola: “Mnemosyne è un atlante figurativo (Bilderatlas) composto da una serie di tavole, costituite di montaggi fotografici che assemblano riproduzioni di opere diverse: testimonianze di ambito soprattutto rinascimentale (opere d’arte, pagine di manoscritti, carte da gioco, etc.); ma anche reperti archeologici dell’antichità orientale, greca e romana; e ancora testimonianze della cultura del XX secolo (ritagli di giornale, etichette pubblicitarie, francobolli)”.
2 Giorgio Agamben nel suo saggio Aby Warburg e la scienza senza nome (contenuto in Agamben, G., La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Verona 2005, riprende l’espressione di Robert Klein presente in Klein, R., La forme et l'intelligible, Paris, Gallimard 1970, v. p. 224.
4 È il titolo di un libro di Georges Didi-Hubermann uscito nel 2009: id., Quand les images prennent position. L'Oeil de l'histoire 1, Les Éditions de Minuit.
5Commenta il fotografo nell’intervista reperibile online: https://www.youtube.com/watch?v=WFyCBhcdzGo
6 Intervista rilasciata per la trasmissione “Pas la peine de crier” di Anne-Laure Chanel, sul canale radiofonico France Culture (radiofrance.fr), il 18 dicembre 2012.
7 Lista delle opere filmiche selezionate da Didi-Hubermann per l’esposizione. (Foto dell’autore).